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Lo scenario internazionale dagli anni ’70 a oggi:

il trionfo dei neocons  

 

     Negli anni ‘70 il progressismo non è del tutto sconfitto, ha ancora delle carte da giocarsi e le gioca. Molta parte della popolazione è ancora liberal e, non a caso, Nixon è espressione dell’ala moderata del Partito Repubblicano, più vicina ad interpretare le esigenze della classe media, anch’essa moderata. Ma la destra reazionaria e conservatrice, forte di un aumentato consenso pubblico, si sta organizzando e sprigionerà tutto il suo potenziale rivoluzionario nel decennio successivo con l’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan.  

     Gli anni ‘70 vedono anche la fine della guerra del Vietnam, la più lunga e disastrosa della storia americana e il simbolo del fallimento della politica estera di Johnson e dell’establishment democratico. Dopo una serie di trattati e la conferenza di pace del 1973, ufficialmente fatta per concordare un progressivo ritiro delle truppe americane, ma di fatto per cercare di uscire con un po’ di dignità dal conflitto, il 30 aprile 1975 la città di Saigon cade e il Vietnam del Sud diventa comunista. La guerra è finita e per gli Stati Uniti è uno smacco internazionale fortissimo, una sconfitta che nell’immaginario collettivo americano lascerà il segno per anni a venire.

     A livello politico la presidenza Nixon termina nel 1973, quando il presidente si dimette a causa dello scandalo Watergate. Dopo una breve parentesi di Ford, vice di Nixon, che ne prende il posto, il candidato democratico Jimmy Carter vince le elezioni del 1976. È un centrista, molto attento ai nuovi equilibri che si sono formati nel decennio e ben lontano da quello spirito riformatore che aveva caratterizzato le presidenze dagli anni ‘30 in poi. Tuttavia, la presidenza Carter è percepita come debole e incapace di offrire soluzioni al paese sia sul piano economico che in politica estera, e su questo secondo fattore si giocherà la sua sconfitta: la crisi degli ostaggi americani in Iran, rapiti nel 1979 dalle forze rivoluzionarie islamiche segna la sua sorte. Non verrà riconfermato alle presidenziali del 1980 e sarà il trionfo della destra neocons per anni tanto atteso.

     Nel gennaio del 1981 Ronald Reagan, esponente dell’ala più reazionaria e conservatrice del Partito Repubblicano, si insedia alla Casa Bianca e da quel momento le teorie di mercato sostenute dalla destra dilagheranno incontrastate. Una serie di riforme neoliberiste verrà introdotta nel paese all’interno della Reaganomics, la rivoluzione economica basata sull’applicazione rigorosa del motto “più mercato, meno stato” e sullo smantellamento del big government, inaugurato negli anni ’30 con il New Deal e proseguito con la Great Society di Johnson.

     In politica estera Reagan si caratterizza come fortemente anticomunista e votato a distruggere l’Urss, che definisce l’impero del male. Annuncia piani per il riarmo e sostiene lo SDI (Strategic Defense Initiative) o scudo stellare, un ambizioso progetto di difesa del suolo americano da attacchi di missili balistici con testate nucleari. Il sistema di difesa, che doveva essere installato nello spazio, venne annunciato quando ancora era in discussione la sua fattibilità e alla fine, anche per via dei costi esorbitanti, risultò irrealizzabile e fu abbandonato.

     Per tutto il decennio la guerra fredda “guerreggiata” si consuma in Afghanistan (1979-1989) a causa dell’invasione sovietica del paese, a cui segue il sostegno dato dagli Usa ai mujaheddin, i guerriglieri afghani. Gli Usa sono impegnati anche a sostenere l’Iraq di Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran khomeinista (1980-1988) e ad abbattere il governo del Colonnello Gheddafi in Libia, additato come sostenitore del terrorismo internazionale e nemico dell’occidente.

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     Lo scandalo Iran-Contras non minerà la popolarità del presidente. Nel 1986 emerge che alcuni stretti collaboratori di Reagan, politici e militari, di concerto con la CIA, avevano venduto segretamente armi all’Iran nel conflitto contro l’Iraq, per destinare il ricavato a sostegno dei Contras, i controrivoluzionari che in Nicaragua combattevano contro il governo sandinista marxista democraticamente eletto. Ma la Camera dei Rappresentanti, dopo un’investigazione, non voterà per l’apertura della procedura d’impeachment, contrariamente a quanto era accaduto prima di lui a Nixon (in realtà si dimise prima che l’impeachment venisse votato dalla Camera) e accadrà dopo di lui a Bill Clinton e Donald Trump, messi in stato d’accusa ma poi assolti.

     Nella seconda metà degli anni ‘80 i processi di implosione dell’Urss si fanno inarrestabili e l’11 novembre 1989 cade il muro di Berlino, l’evento più memorabile del decennio. La guerra fredda è finita, l’Urss si dissolve in preda a spinte centrifughe e i paesi satellite della federazione acquisiscono l’indipendenza. Il seggio ONU dell’Urss passa alla Russia che, in cambio, si accolla i debiti dei paesi di nuova indipendenza. Nel 1991 la Germania è riunificata e la Costituzione della RFT si estende anche alla RDT.  

     Nel 1988 George Bush, vicepresidente di Reagan ed ex capo della CIA, conquista la Casa Bianca. In politica interna si dimostra continuatore di Reagan mentre in politica estera affronta il delicato passaggio dalla fine della guerra fredda alla fase successiva, e in particolare prepara l’ingresso della Russia tra gli stati occidentali. Sul piano internazionale gli anni ’90 iniziano all’insegna della guerra del Golfo, causata dall’invasione irachena del Kuwait. Saddam Hussein diventa un nemico giurato dell’occidente e contro di lui si schiera una coalizione di forze euro-arabe guidate dagli Stati Uniti. La guerra è vinta ma Saddam resta al potere.

     Nel 1992 a Bush succede Bill Clinton, il candidato del Partito Democratico, ma la sua presidenza è considerata una parentesi tra quelle di Bush padre e figlio. Clinton è infatti un moderato, un centrista, consapevole, come lo era Carter, che il tempo delle grandi riforme democratiche e socialiste è finito. Se in campagna elettorale aveva promesso un sostanziale taglio delle tasse per la middle class e la riforma del welfare con la creazione di un servizio sanitario nazionale, già dal giorno dopo il suo insediamento si affrettava a ridimensionare le speranze dei cittadini americani e a rinnegare quanto promesso.

     Di fatto, dunque, negli anni ‘90 il pendolo politico è ancora a destra. Questo è evidente soprattutto a metà mandato, quando Clinton deve fronteggiare la violenta opposizione del Congresso di Gingrich. Dal novembre 1994 il governo è diviso: il presidente è democratico mente i due rami del Congresso sono entrambi a maggioranza repubblicana e costituiscono un forte contrappeso alla presidenza. Newt Gingrich, leader della nuova destra religiosa e fondamentalista e nuovo presidente della Camera, aveva costruito la vittoria repubblicana nelle elezioni di mid-term attorno al “contratto con l’America” (da cui nel 2001 Berlusconi mutuerà il suo “contratto con gli italiani”), in cui promette di portare a termine la rivoluzione neoliberista iniziata da Reagan: tagli sostanziosi alla spesa pubblica, riduzione delle tasse, smantellamento del Medicare, il programma di aiuto sanitario agli anziani, obbligo di pareggio in Costituzione e deregulation. Per tutti gli anni ’90 sarà lui a guidare con vigore e spregiudicatezza la controffensiva conservatrice contro i democratici.

     Dopo la sconfitta nelle elezioni di midterm del 1994, Clinton cambia rotta e si allinea alle posizioni del congresso: dichiara di fronte ad un’America stupita che il suo obiettivo sarà il pareggio di bilancio entro 10 anni. È una svolta storica: è la fine del sistema di deficit spending che era stato uno dei capisaldi del Partito Democratico. Inoltre, firma una legge in attuazione del contratto con l’America con cui si negava ogni aiuto ai clandestini (in ottemperanza ai risultati del referendum in California), si riduceva a 2 anni l’indennità di disoccupazione, con la condizione che chi ne beneficiava doveva dimostrare di aver tentato l’ingresso nel mondo del lavoro, e si riducevano a 5 anni i sussidi alle famiglie povere. In particolare, era previsto che nessun sussidio dovesse essere dato alle donne single con figli al di fuori del matrimonio: nel nuovo orientamento conservatore e moraleggiante della politica, le donne dovevano essere degne! Questo spostamento a destra garantisce a Clinton la rielezione nel 1996.

     Il secondo mandato è macchiato dallo scandalo Lewinsky. Il virulento attacco di Gingrich non riuscirà a far dimettere il presidente che anzi, messo sotto impeachment per falsa testimonianza, sarà assolto da ogni accusa. Clinton viene perdonato dalla moglie Hillary, che interviene in sua difesa in tv davanti a milioni di telespettatori, e viene perdonato anche dall’America, che dimostrerà di essere meno moralista dei suoi rappresentanti. Alla fine, la violenza degli attacchi della destra sortisce l’effetto contrario: nelle elezioni di midterm del 1998 i democratici conquistano molte posizioni, alla Camera i due partiti sono praticamente in pareggio e Gingrich, preso atto di aver perso la battaglia, si dimette.

     Gli anni della presidenza Clinton sono caratterizzati da una crescita economica senza precedenti. Questa situazione così favorevole è dovuta soprattutto alla politica monetaria di Alan Greenspan, il presidente della FED, che con manovre monetarie attente rende accessibile il credito senza creare inflazione. Un certo peso l’ha avuto anche la nascita della New Economy, legata alla diffusione di internet e dell’Information & Comunication Technology, dell’e-commerce, del fenomeno dello start-up con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro. La tendenza si inverte solo nel 2000 e questo fa sì che a fine mandato Clinton riesca a lasciare un bilancio in avanzo al suo successore.

     Nel novembre 2000 George W. Bush è il nuovo presidente degli Stati Uniti, ma la sua vittoria è accompagnata da molte polemiche per i sospetti di brogli e irregolarità nella votazione in Florida. Bush si appella alla Corte Suprema che gli dà ragione. Lo sfidante Al Gore decide di non opporsi alla decisione della corte e Bush diventa presidente con 271 voti dei grandi elettori contro i 267 di Gore, ma avendo ottenuto meno voti popolari (49,8 milioni contro i 50,1 milioni di Gore), una situazione che ha fatto sorgere molti interrogativi sulla qualità democratica del sistema elettorale americano.

     L’evento più importante di tutta la presidenza Bush è l’attacco alle Torri gemelle del 2001 che inaugura la global war on terror, la lotta al terrorismo su scala globale. Con l’attacco all’Afghanistan e all’Iraq che ne segue per rappresaglia nasce una guerra internazionale di tipo asimmetrico, che vede una grande potenza combattere contro elementi locali ed etnici o fondamentalisti religiosi (islamici), e ha come teatro di scontro soprattutto il Medioriente. Viene formulata la nozione di pre-entive war, la guerra preventiva volta ad anticipare le iniziative di un nemico infido e pericoloso.

In politica estera l’amministrazione Bush, che ha il sostegno dichiarato dei neocons, è decisa a ristabilire il ruolo egemone dell’America a livello internazionale, dando avvio a quello che è noto come unilateralismo americano, a fronte del quale gli Stati Uniti si aspettano lealtà incondizionata da parte degli alleati, soprattutto quelli europei, il cui peso è ora molto ridimensionato. Gli Usa non ratificano il Protocollo di Kyoto sul clima, rifiutano le giurisdizioni internazionali per i crimini commessi da un cittadino di uno stato in un altro stato e denunciano il Trattato Anti Balistic Missile del 1972, che limitava la costruzione di missili antibalistici, per aver maggiore libertà d’azione, in campo militare, contro i cd. rogue states, gli stati “canaglia” accusati di sostenere il terrorismo internazionale.

     Sul piano interno, appena insediato Bush annuncia subito un enorme programma di riduzione delle tasse, che però andrà ad avvantaggiare soprattutto i ceti alti. Il boom economico degli anni ’90 è ormai esaurito e il minore gettito fiscale per lo stato, unitamente agli elevati costi per l’impegno militare in Afghanistan e in Iraq e per la lotta al terrorismo, si traduce in un buco di bilancio del 4% del PIL. Una cifra enorme se pensiamo che Clinton aveva consegnato al suo successore un avanzo del 2% del PIL.

     In campo economico, Bush ha dimostrato di camminare sulla strada spianata da Reagan e di non volere rovesciare l’orientamento neoliberista prevalente. Del resto, l’esperienza del democratico Barack Obama, alla Casa Bianca negli anni 2008-2016, ha fatto capire chiaramente che la possibilità di un’inversione di rotta in questo senso è mera retorica politica. Obama, che con lo slogan Yes, we can si era impegnato a cambiare il paese su molti fronti, ha tradito molte delle aspettative ingenerate. Oggetto di violenti attacchi da parte della destra repubblicana, ha spesso ceduto ai suoi oppositori adottando, sul piano internazionale, misure sostanzialmente in linea con i suoi predecessori.

     Sul piano interno l’Obamacare, la riforma sanitaria del 2010, ha allargato la copertura sanitaria a ulteriori 20 milioni di cittadini americani predisponendo sussidi per l’acquisto di pacchetti assicurativi per le famiglie meno abbienti che non rientrano nei preesistenti Medicare e Medicaid, riservati alla parte più povera della popolazione. Ma la riforma passa sempre per il sistema delle assicurazioni private, che ora diventano obbligatorie pena multe salate. E’ stato introdotto un tetto massimo di spesa assicurativa di $ 11.900 per famiglia, una cifra non di poco conto che andrà ad aggravare il bilancio familiare della lower class. Nel 2018 l’obbligatorietà è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte del Texas e nei prossimi anni sarà probabilmente oggetto di scontri e ricorsi legali.

     Infine, l’attuale presidente in carica è il magnate Donald Trump, in corsa per la rielezione il prossimo novembre. In questo primo mandato Trump, sulla scia del motto America first con cui ha vinto le elezioni del 2016, si è posto come l’uomo forte in grado di rimettere in sesto il paese. Gli Stati Uniti, nella sua visione, devono guardare al loro interno e orientare ogni sforzo verso le esigenze nazionali, abbandonando il più possibile gli impegni internazionali. Conseguentemente, ha introdotto limiti all’immigrazione, soprattutto a quella proveniente dall’America Latina e dai paesi musulmani. Sul piano economico ha introdotto dazi sui prodotti provenienti dai paesi dell’Unione Europea e dalla Cina.

     Va sottolineato che Trump, con la politica poco ortodossa dei dazi commerciali, ha avuto il merito di fermare lo strapotere economico della Cina, che grazie ad un capitalismo molto aggressivo sta avanzando ovunque nel mondo. In assenza di istituzioni democratiche e senza tutele sindacali, i lavoratori cinesi come schiavi producono merci a bassissimo costo, che sono molto appetibili per i mercati economici e riescono a imporsi sulla concorrenza. Questo va a discapito dei lavoratori e dei produttori occidentali – e particolarmente europei – abituati i primi a standard lavorativi e diritti sociali di alto livello, e i secondi alla produzione e commercializzazione di prodotti più costosi, avendo come componente un costo del lavoro importante.  

     All’inizio del XXI secolo sullo scenario internazionale rivaleggiano due attori sul piano economico: gli Stati Uniti, la grande potenza economica e militare uscita vincitrice dallo scontro con l’Unione Sovietica, e la Cina, diventata nel giro di due decenni una potenza economica e tecnologica mondiale, con una capacità produttiva e di crescita senza eguali. Nel 2019 gli Usa hanno prodotto il 23,6% del PIL mondiale e la Cina ha prodotto il 15,5%. Il Giappone li segue da lontano con un 5,7% (Fonte: FMI). Entrambi i paesi sono fautori di politiche neoliberiste, seppur in modo diverso, e si contengono il primato per il dominio economico del mondo.

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