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monica Morandi
Il pensiero liberal entra in crisi
Nel 1944, quando le teorie keynesiane dominano ovunque e il liberismo è ideologia di pochi, viene pubblicato in sole 2000 copie un libricino destinato a divenire il punto di riferimento, 30 anni dopo, di tutto il movimento neocons americano: The Road to Serfdom dell’economista austriaco Friedrich von Hayek.
La via per la schiavitù che Hayek paventa è il big government, ossia il forte interventismo statale nell’economia e nel sistema sociale, che era il fulcro delle teorie keynesiane e che aveva raggiunto il punto più alto con il New Deal. Non a caso il testo è dedicato ai socialisti di tutti i partiti, per metterli in guardia dai pericoli che, secondo l’autore, il loro approccio avrebbe comportato, ossia la tendenza ad uno stato sempre più totalitario, dove le libertà umane vengono conculcate. Come nella miglior tradizione liberista, per Hayek l'influenza dei governi sull'economia deve essere minima e occorre invece tutelare le libertà in campo economico, che hanno sempre accompagnato le libertà individuali e hanno creato benessere diffuso.
Hayek scrive The Road to Serfdom nel pieno della seconda guerra mondiale mentre è in Gran Bretagna, ed è spaventato dagli esiti distruttivi della politica autoritaria della Germania nazista, ma allo stesso tempo teme l’esperienza collettivista dell’Unione Sovietica, con la sua economia pianificata e la violenza di regime contro la proprietà privata e la libera iniziativa economica. Per l’economista austriaco occorre stare lontani da questi due mali e recuperare il liberalismo – e con esso l’individualismo, che rende possibile l’espressione individuale degli uomini – per ristabilire la libertà.

In particolare, occorre smorzare l’enfasi socialista delle moderne società democratiche dove il ruolo dello stato è predominante perché rappresenta un pericolo per le libertà individuali. In questo contesto lo stato deve farsi il più alto garante della proprietà privata che, restando così frammentata e decentralizzata perché posseduta da un vasto numero di individui, impedisce la centralizzazione del potere in mani uniche, particolarmente quelle statali.
Queste tesi, che al momento della pubblicazione di The Road to Serfdom non avranno seguito, trent’anni dopo saranno dominanti. Un lungo percorso ha riportato le teorie liberiste in auge.
Verso la fine degli anni ‘50 inizia quella che sarà nota come la diaspora dei cervelli e che continuerà per un ventennio: elementi di punta del pensiero liberal e progressista si spostano a destra, rimpinguando le fila del conservatorismo. Il giornalista Irving Kristol, lo scrittore e sociologo Daniel Bell, lo scrittore e opinionista Norman Podhoretz, il politologo ed esperto di affari esteri Samuel Huntington, per fare qualche esempio, tra le menti più brillanti di quello che ora viene chiamato neoconservatorismo, in passato avevano tutti militato nel Partito democratico ed erano stati sensibili alle questioni sociali e ai temi culturali. Addirittura Kristol e Podhoretz negli anni ‘30 erano stati trotzkisti. A partire dagli anni ’80, ad essi si affiancano i neoconservatori di 2°generazione, che si sono formati nelle fondazioni e nei think tank (istituzioni produttrici di pensiero) e che hanno sempre e solo militato nel Partito repubblicano. Cito, tra i tanti, Robert Kagan, esperto di strategia militare e di relazioni internazionali, William Kristol, figlio di Irving e analista politico, Paul Wolfowitz, vicesegretario della Difesa americana 2001-2005 e presidente della Banca Mondiale 2005-2007, Karl Rove, ideologo delle campagne elettorali di George Bush negli anni 2000 e 2004. Molti di questi neocons di prima e seconda generazione sono ebrei e hanno un interesse primario per i temi di politica estera, in particolare per la questione israelo-palestinese e, più in generale, per un riassetto strategico del Medio Oriente in funzione americana. Tutti i neocons concordano che la cultura liberal degli anni ’60 è all’origine del decadimento degli Stati Uniti e che un’inversione di tendenza è possibile solo riaffermando la potenza e l’egemonia statunitense nel mondo.
Questo passaggio epocale è stato possibile per il declino del pensiero liberal che, a partire dalla metà degli anni ’60, ha perso sempre più posizioni. Le cause di questo declino sono molteplici: la diffusione della controcultura, che secondo molti americani minacciava, con il suo permissivismo, i valori delle origini; l’aumento del deficit, per i costi altissimi che si stavano formando a causa della guerra del Vietnam e dei programmi assistenziali della Great Society di Johnson; le violenze scaturite dalle rivolte degli afroamericani, che avevano fatto emergere la paura del potere nero; la difficoltà dello stato, e dunque della politica, di adattarsi ai nuovi contesti definiti dai processi di globalizzazione (la nascita delle multinazionali e di un’economia transnazionale, della divisione internazionale del lavoro e dei paradisi fiscali, dove si rifugiavano gli esponenti della grande industria che volevano scappare dall’alta tassazione sui redditi); lo stato dell’economia, che non permetteva ritmi di crescita come quelli del periodo post-bellico. Il pensiero liberal si era dimostrato incapace di offrire una risposta a tutti questi problemi.
La misura politica che divenne il simbolo della fine della crescita economica degli anni ‘50 e ‘60 fu la fine del Gold Standard, il regime di cambi fissi con parità aurea in vigore da oltre venticinque anni che aveva come perno centrale il dollaro: il 15 agosto 1971 Richard Nixon annunciò al mondo la fine della convertibilità del dollaro in oro. Questa decisione venne presa per una serie di motivi: innanzi tutto, l’aumento esorbitante della spesa pubblica a seguito della guerra del Vietnam e della Great Society, che avevano generato un forte deficit nel bilancio federale con conseguente indebitamento pubblico. Gli Stati Uniti dovevano stampare sempre più dollari per finanziare i programmi assistenziali e soprattutto per acquistare sui mercati internazionali le merci necessarie a soddisfare gli enormi fabbisogni dell’esercito americano. Si rendeva dunque necessario reperire oro a sostegno delle manovre monetarie espansive.
In secondo luogo, questi altissimi costi non permettevano alla più grande potenza economica del mondo di tenere il passo con paesi in forte crescita economica come Germania e Giappone. A sua volta l’Urss di Breznev stava conducendo una politica molto attiva nei confronti del Terzo mondo che rischiava di tenere gli Usa in disparte.
Inoltre, gli Stati Uniti faticavano sempre di più a far fronte alle crescenti richieste da parte di altri stati, incluse le banche centrali europee, di convertire le proprie riserve di dollari in oro. Queste richieste stavano prosciugando le riserve auree americane, che alla fine della seconda guerra mondiale costituivano la metà dell’ammontare mondiale di oro. Dal 1950 al 1970 le riserve si erano ridotte dal 49% al 15,7%, a fronte della crescita di quelle europee dal 6% al 39%.
Abbandonando la base aurea non fu più necessario trovare oro a garanzia dell’emissione di nuova moneta. Né tantomeno essere obbligati a cambiare i dollari in oro a chi ne facesse richiesta. Da quel giorno la moneta, non solo il dollaro ma anche ogni altra valuta, è moneta Fiat, ossia creata dal nulla, ed è diventata uno strumento di politica economica di uno stato, e più recentemente uno strumento di credito nelle mani delle banche centrali che la concedono a prestito agli stati. Questi la possono liberamente emettere in una certa quantità a seconda degli scopi e dei vincoli che si pongono senza preoccuparsi di trovare a contropartita la medesima quantità d’oro.
La decisione unilaterale degli Stati Uniti ebbe ovviamente ripercussioni enormi sulle economie degli altri paesi: il Gold Standard, un regime per cui le valute mondiali erano convertibili in dollari e i dollari in oro, era in vigore dagli accordi di Bretton Woods del 1944 e coinvolgeva il mondo intero. La fine degli accordi ha inaugurato un sistema di cambi fluttuanti molto instabile.
Molti stati decisero di svalutare le loro valute per aumentare le esportazioni e compensare così i bassi tassi di crescita che ovunque si registravano rispetto al decennio precedente. Attacchi speculativi alle valute che erano ora più deboli perché prive di un sistema di ancoraggio e controllo non si fecero attendere. Per cercare di dare un po’ di stabilità alle loro valute, gli stati della CEE, l’allora Comunità Economica Europea, crearono il serpente monetario, che però fu ben presto abbandonato poiché incapace di contenere la fluttuazione dei cambi. Il caso europeo è emblematico della politica di forza che gli Stati Uniti avevano adottato: con la fine del Gold Standard, indirettamente, avvertivano gli alleati che da quel momento non si sarebbero più fatti garanti delle loro economie e che il benessere dell’America veniva prima di qualsiasi alleanza politica o militare.