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monica Morandi
Milton Friedman e la critica al modello keynesiano
Negli anni ’70 il Welfare state, con i suoi obiettivi di benessere diffuso e di realizzazione della piena occupazione, entra in crisi e con esso il keynesismo, che sembra incapace di offrire risposte alla nuova difficile situazione economica. Il collasso del sistema di accordi di Bretton Woods e la crisi petrolifera del 1973, seguita all’embargo stabilito dai paesi dell'Opec per le esportazioni di petrolio verso i paesi industrializzati, provocano a livello globale un forte aumento dell’inflazione e della disoccupazione.
Per la prima volta nella storia si verifica il fenomeno della stagflazione, ossia la presenza congiunta della recessione e dell’inflazione, due fenomeni che si erano sempre verificati separatamente.
In questo contesto c’è un forte recupero delle teorie liberiste, che negli Stati Uniti sono inizialmente sostenute soprattutto dalla destra repubblicana e conservatrice, ma che col tempo verranno fatte proprie anche dal partito democratico, sempre più centrista e meno liberal.

Inflazione storica Usa anni ’60-’80 (fonte: Inflation.eu)
Il punto di riferimento di questa svolta è l’economista americano Milton Friedman, attorno a cui si raggruppa una folta schiera di economisti che daranno vita alla Scuola di Chicago. La teoria economica di cui questi economisti si fanno promotori è detta neoliberista o monetarista, per l‘importanza che le politiche monetarie assumono nel loro pensiero.
Il cuore dell’idea neoliberista è racchiusa nel titolo del testo fondamentale del suo massimo esponente. In Capitalismo e libertà Friedman sostiene che la libertà individuale va di pari passo con il sistema di mercato. Dove c’è l’una c’è l’altro. Anzi, la libertà è conseguibile solo nella società di mercato, fondata sulla libera impresa privata in regime di concorrenza, e ogni altro sistema economico è schiavitù e costrizione, come dimostrano stati totalitari come la Germania nazista e l’Unione Sovietica. In essi, infatti, il totalitarismo economico, ovvero la centralizzazione dell’attività economica tramite coercizione, si affianca al totalitarismo politico, cioè alla dittatura.
Che cosa vuol dire libertà? Secondo Friedman libertà o libertà politica significa assenza di coercizione sull’uomo da parte dei suoi simili. L’obiettivo di un liberale dev’essere quello di mantenere per ciascuno il massimo grado di libertà, compatibilmente con la regola d’oro che «la libertà di una persona finisce dove comincia quella di un’altra». Perché questa condizione sussista occorre evitare la concentrazione del potere nelle mani di uno o pochi soggetti politici (siano questi un monarca, un dittatore, un’oligarchia o anche una maggioranza in un sistema democratico). Il potere, in altre parole, dev’essere frammentato e questo è possibile in presenza di un sistema di controlli ed equilibri. Il mercato è il primo e più importante alleato di un liberale perché sottrae l’organizzazione dell’attività economica al controllo dell’autorità politica.
Il ruolo del governo deve essere minimo e limitarsi a quei settori d’attività che non possono essere demandati al mercato: 1) definire le regole del gioco economico e assicurare, come fa un arbitro, che queste vengano rispettate: assicurare il rispetto della legge e dell’ordine pubblico, definire i diritti di proprietà, dirimere le controversie relative all’interpretazione delle regole, favorire la concorrenza ecc…; 2) impedire il monopolio, pubblico o privato, che con la sua assenza di alternative limita di fatto la libertà di scambio; 3) tutelare come un buon padre di famiglia e congiuntamente alle famiglie e agli appositi enti privati, malati di mente e minorenni, ossia quei soggetti che non sono in grado di vivere autonomamente e responsabilmente in una società libera.
Una società libera deve fondarsi su 4 pilastri economici:
1) Deregulation: politiche che favoriscono la concorrenza nel mercato, sia interno che internazionale; abolizione dei dazi doganali e delle tasse protezionistiche; adozione di tassi di cambio flessibili (attenzione, non instabili, ma liberi di variare entro limiti relativamente ristretti, configurandosi in questo modo come di fatto stabili perché le condizioni e le politiche economiche di base sono stabili).
2) Riduzione della spesa pubblica: tagli ai fondi per il sistema pensionistico, per l’assistenza sanitaria, per il salario di disoccupazione, ecc...
3) Privatizzazioni: sostituzione dei servizi pubblici (sanità, poste, scuola, pensioni, ecc…) con servizi privati. In altri termini smantellamento del welfare state. Questa sarà la pietra angolare del neoliberismo dagli anni ’70 in poi.
4) Una politica fiscale improntata ad una tassazione ragionevolmente bassa, sia per le persone fisiche che per le imprese. Gli scaglioni delle aliquote più alte vanno eliminati, la tassazione deve essere fissa (flat tax) e indipendente dai redditi, e deve prevedere l’esenzione per quelli più bassi. Questo disincentiva la tendenza a trasferire i capitali in paradisi fiscali e comporta una più efficiente allocazione delle risorse.
Ma l’aspetto più importante della teoria di Friedman riguarda la centralità della politica monetaria, che in campo economico costituisce un’assoluta novità. Sarà proprio a partire da essa che l’economista di Chicago condurrà una ferrata critica delle teorie keynesiane.
In Capitalismo e libertà Friedman dedica ampio spazio alle cause della recessione degli anni ‘30, secondo lui ben diverse da quelle comunemente accolte, ossia l’avidità di banchieri e imprenditori e, più in generale, l’instabilità e l’inadeguatezza del sistema capitalistico quando lasciato a se stesso. La gravità della crisi va invece attribuita alle azioni e alle omissioni della Federal Reserve, dunque alle politiche monetarie sbagliate attuate dagli individui che allora ne erano a capo.
La FED, la banca centrale degli Stati Uniti istituita il 23 dicembre 1913, disponeva del potere di creare moneta (è prestatrice di ultima istanza) e quindi avrebbe potuto rifornire le banche delle richieste dei cittadini durante la corsa agli sportelli, ma non fece nulla di tutto ciò, lasciando che il sistema bancario implodesse. La FED affrontò la crisi adottando misure monetarie restrittive: diminuendo la sua esposizione creditizia, ossia diminuendo la quantità di moneta in circolazione, anziché aumentandola. Questo si ripeté dal 1930 al 1933 ogni volta che la fiducia nel settore creditizio sembrava tornare e con essa timidi segnali di ripresa, annullando quindi il potenziale di quel trend positivo e condannando molte banche al fallimento. Solo nel 1932 la FED decise di immettere moneta nel sistema tramite l’acquisto di Buoni ordinari del tesoro per 1 miliardo di dollari, una misura che se presa subito sarebbe stata in grado di arginare i danni, ma che a quel punto poté solo rallentare l’ormai inevitabile declino economico del paese.
Quindi, se la FED dal 1929 al 1933 avesse evitato la riduzione della massa monetaria, il livello dei prezzi di beni e servizi non sarebbe diminuito di oltre un terzo e il valore dei redditi non si sarebbe dimezzato. Il crollo della borsa del ’29 avrebbe prodotto una crisi temporanea, con effetti simili a quelli prodotti dalle crisi precedenti, ovvero più breve e senza gli effetti nefasti e drammatici che il paese ha conosciuto.
Un punto cruciale dell’analisi di Milton Friedman è la critica alle politiche keynesiane poste in essere dai governi sin dagli anni ’30 e ancora predominanti negli anni ’60: nel sistema economico la politica monetaria, e particolarmente il controllo dell’emissione di moneta, è importantissima e la fallacia dell’analisi keynesiana deriva proprio da non tenerla in sufficiente considerazione, perché si fonda implicitamente sull’assunto che l’emissione di moneta non abbia alcun effetto sui consumi.
L’economista di Chicago, ponendosi in posizione antitetica a Keynes, nega con forza che la spesa porti automaticamente ad un aumento della ricchezza nazionale. La teoria del moltiplicatore keynesiano (la spesa a deficit genera un aumento più che proporzionale del reddito nazionale) vale solo a certe condizioni. Le decisioni di spesa dei singoli sono complesse e la politica monetaria incide sulle loro scelte. A seconda della presenza di una complessa serie di variabili, inclusi il livello dei tassi d’interesse e il rapporto che i consumatori vogliono mantenere tra i fondi che possiedono e il loro reddito, l’aumento della spesa pubblica può portare 1) ad un aumento della spesa privata, quindi della domanda, oppure 2) a nessun aumento della spesa privata, quindi la domanda resta uguale a prima, oppure addirittura 3) ad una diminuzione della spesa privata, e dunque ad una diminuzione della domanda. Gli ultimi due casi controbilancerebbero il potenziale generativo di valore dell’aumento della spesa pubblica e di conseguenza il reddito nazionale rimarrebbe invariato.
Sulla base dell’evidenza empirica raccolta durante una ricerca condotta con i suoi allievi, Friedman conclude che un ipotetico aumento di 100 dollari nella spesa pubblica aggiungerebbe in media esattamente 100 dollari al reddito, e non 300 come da moltiplicatore keynesiano. Ciò significa che un aumento della spesa pubblica in rapporto alle entrate non ha alcuna funzione espansionistica: esso può certamente far crescere il reddito monetario dei singoli, ma le spese private rimangono immutate e dunque la domanda non aumenta. Anzi, poiché un aumento della spesa pubblica avrebbe come effetto quello di fare aumentare il livello dei prezzi (tendenza inflazionistica), presumibilmente nel tempo si avrà addirittura una contrazione della spesa privata.
Il problema principale delle teorie keynesiane, secondo Friedman, è che dalla loro applicazione deriva un alto tasso di inflazione (= aumento generalizzato del livello dei prezzi senza che vi sia un corrispettivo aumento dei salari, che comporta una perdita del potere d’acquisto della moneta). Le politiche di deficit spending a sostegno della spesa pubblica, fatte per raggiungere la piena occupazione, creano inflazione a causa dell’aumento della quantità di moneta, ossia generano una situazione in cui l’offerta di moneta in circolazione è superiore alla domanda. Ma “l'inflazione è sempre e dovunque un fenomeno monetario", continua l’economista, e quindi può essere controllata riducendo la quantità di moneta in circolazione.
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Un’altra critica al keynesismo è l’obiettivo della piena occupazione, in nome del quale veniva giustificato un alto livello di spesa pubblica e conseguenti politiche inflattive. La curva di Phillips, formulata nel 1958 dall’economista inglese da cui prende il nome, rappresentava l’idea comunemente accettata di una relazione inversa tra inflazione e disoccupazione: ad un aumento del tasso d’inflazione corrispondeva una diminuzione del tasso di disoccupazione e viceversa. Ciò implicava che la disoccupazione potesse essere ridotta in modo permanente da politiche espansive della domanda, e quindi da un'inflazione più elevata.
Ma negli anni ’60 cominciano a verificarsi casi in cui inflazione e disoccupazione si manifestano insieme, ossia sono in relazione positiva e direttamente proporzionale, una situazione che diventerà generalizzata per tutti gli anni ’70.
Contro le teorie semplicistiche della curva di Phillips e contro le teorie keynesiane, Friedman elabora il concetto economico del tasso naturale di disoccupazione, ossia nel lungo periodo anche in una situazione di piena occupazione c’è un livello fisiologico di disoccupazione che non può essere eliminato. Questo deriva da una serie di fattori presenti nel mercato del lavoro che rendono non sempre facile l’incontro tra domanda e offerta, ad es. il tempo necessario per trovare un impiego, che può essere anche molto lungo, l’insufficienza delle informazioni per trovare un impiego adatto alla propria qualifica, una minore offerta di un certo impiego dovuta ad una ristrutturazione tecnologica dell’azienda, la necessità di spendere tempo in formazione professionale di certe tipologie di lavoratori, ecc.
La curva di Phillips è valida nel breve, quando effettivamente un aumento del tasso d’inflazione potrebbe avere l’affetto di ridurre se non portare a zero la disoccupazione, ma oltre una certa soglia, che è il tasso naturale di disoccupazione, questa tendenza si inverte e la disoccupazione torna a salire, perché non dipende dal livello d’inflazione ma da fattori strutturali inerenti alla conformazione del mercato del lavoro. Puntare all’eliminazione della disoccupazione, dice Friedman, è dunque un obiettivo irrealistico e irraggiungibile e provoca solo un aumento dell’inflazione senza i benefici sperati.
Va notato che il concetto di disoccupazione naturale sarà criticato da diversi economisti e soprattutto dai postkeynesiani, che criticano anche l’idea che l’inflazione sia solo un fenomeno monetario. Per loro, al contrario, l’inflazione è un fenomeno molto più complesso e può essere causata da diverse variabili.
In conclusione, per Friedman e per i monetaristi, il pericolo più grave per un sistema economico è l’inflazione, per cui l’obiettivo primario delle autorità pubbliche dev’essere la stabilita dei prezzi, che può essere raggiunta tramite il controllo dell'offerta di denaro affidato alle banche centrali. Da questo deriva l’assunto che non bisogna stampare moneta per finanziare la spesa pubblica. Le autorità devono abbandonare del tutto l’impegno verso la piena occupazione, devono evitare politiche interventiste assistenzialiste e devono invece promuovere la liberalizzazione dei mercati del lavoro e della finanza.
Le idee sulla centralità del mercato e sulla necessità di politiche non interventiste e non inflazionistiche, ossia i capisaldi del neoliberismo, verranno accolte durante gli anni ’80 e ’90 dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale, dal governo Thatcher, dall’Amministrazione Reagan e da diversi governi dell’America Latina, in particolare dal Cile, mentre le regole di politica monetaria saranno utilizzate dalla Federal Reserve già a partire dal 1979 ed anche dalla Banca Centrale Europea sin dalla sua nascita.