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Le Teorie economiche del dopoguerra:

il modello keynesiano come risposta alla crisi del ‘29

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Nel dopoguerra la teoria economica che fa capo al mondo democratico e progressista è quella keynesiana. Sorta negli anni 30, sarà prevalente, pur con modifiche e aggiustamenti che la renderà più moderata e appetibile ad una platea nel tempo sempre meno progressista e sempre più liberal, fino alla fine degli anni ’60.

L’economista inglese John Maynard Keynes scrive il suo testo fondamentale Teoria generale dell'occupazione, dell’interesse e della moneta nel 1936 per uscire dalla recessione causata dalla devastante crisi finanziaria del ’29, che aveva polverizzato i risparmi di milioni di cittadini americani.

Dopo anni di boom azionario, il 24 ottobre 1929, a seguito della forte diminuzione del valore dei titoli azionari, cominciò la corsa alle vendite, a cui segui, il 29 ottobre, il crollo della borsa di Wall Street, una giornata passata alla storia come Black Tuesday. Il panico che si diffuse nei mesi successivi portò i cittadini in massa, preoccupati di perdere i loro risparmi, a ritirare i depositi bancari in quella che è nota come la corsa agli sportelli. Ma le banche non detenevano liquidità sufficiente per far fronte alle richieste congiunte di un così grande numero di correntisti e divennero insolventi. In diversi stati le autorità decretarono la chiusura degli istituti di credito causando proteste e disordini. Poco dopo l’inizio della crisi molte banche fallirono, riducendo sul lastrico milioni di risparmiatori, privati cittadini e industriali.

     Di conseguenza il livello dei consumi calò considerevolmente, i prezzi crollarono, l’industria nazionale venne paralizzata e ci furono licenziamenti in massa. Ovunque negli stati dell’Unione si crearono enormi sacche di disoccupazione, mentre coloro che mantennero il posto di lavoro dovettero accettare un orario ridotto e un salario molto inferiore.  Le famiglie persero le loro case, le aziende, le fattorie. I fondi per l’assistenza sociale dei comuni e degli stati divennero ben presto insufficienti e nelle strade, da nord a sud del paese, vagava un numero sempre più grande di affamati. La pesante recessione che iniziò e che è passata alla storia come la Grande depressione fece sentire i suoi effetti a livello mondiale: a seguito del crollo della richiesta di materie prime e di altri beni di consumo, il commercio internazionale diminuì fortemente e il PIL mondiale dal 1929 al 1932 diminuì del 15%.

   Di fronte a questa situazione di grave crisi la teoria economica classica aveva mostrato tutta la sua inadeguatezza.

     L’economia classica o liberista, predominante dalla fine del secolo XVIII all’inizio del XX credeva infatti che il sistema economico di mercato, anche quando subiva contraccolpi e scosse, fosse sempre in grado di regolarsi da sé fino a tendere al perfetto equilibrio – l’equilibrio di domanda e offerta («l'offerta crea la propria domanda»). Non c’è studente di Economia che non conosca la teoria della mano invisibile di Adam Smith, proposta per la prima volta nel libro La ricchezza delle nazioni del 1776: se ogni individuo si comporta razionalmente perseguendo il proprio interesse, e dunque il proprio guadagno, come guidato da una mano invisibile realizzerà indirettamente anche il benessere sociale senza che debba rendersi necessario alcun intervento regolatore dello stato. E’ la teoria del liberismo o laissez-faire: in economia occorre solo lasciare fare il mercato, che sempre riesce ad allocare le risorse in modo equo ed efficiente. Lo stato non deve intervenire e deve occuparsi solo di svolgere le funzioni istituzionali, come garantire il rispetto dell’ordine sociale e della legge.

     Nel 1815 David Ricardo afferma, a sua volta, che il sistema economico raggiunge sempre e invariabilmente una situazione di piena occupazione e che il commercio internazionale, basandosi sul libero scambio dei beni che ogni nazione è in grado di produrre in maniera specializzata, è l’elemento che rende possibile l’equilibrio del sistema economico internazionale. La legge di Say, enunciata dall'economista francese Jean-Baptiste Say, fa di questi assunti un dogma: eventuali crisi di mercato sono sempre temporanee poiché «l’offerta crea sempre la propria domanda» cioè nel tempo offerta = domanda (se l’offerta di beni, servizi e lavoro è maggiore della domanda i prezzi o i salari tenderanno a scendere e se è minore tenderanno a salire), dunque non devono essere risolte tramite intervento statale ma lasciando libero il mercato di autoregolarsi e di tendere al suo naturale equilibrio. 

     Tuttavia, gli attacchi e le critiche dell’economia marxista alla teoria classica, che si basava più che altro su una visione politica e ideologica del mondo, avevano reso necessario un approccio più scientifico. Proprio per rispondere a questi attacchi, verso la fine del XIX secolo si sviluppa la teoria economica neoclassica o marginalista, che riprende i principi del liberismo (efficienza del libero mercato, non intervento dello stato nel sistema economico, apertura al commercio internazionale e alla libera concorrenza) ma li fornisce di precisi modelli economici e matematici. Gli economisti neoclassici, con metodi scientifici, sviluppano così una serie di teorie a supporto del liberismo fino ad allora sconosciute: la teoria del profitto, la teoria della distribuzione della ricchezza e la teoria del valore-utilità, e adottano un’analisi di tipo marginalista: il punto di massimo profitto per un’impresa è quello dove i ricavi marginali sono uguali ai costi marginali.

    A dire il vero, per i neoclassici, esistono dei casi di fallimento di mercato che meriterebbero l’intervento statale: quando gli operatori tendono a diventare monopolisti in determinati settori, comportando un grave danno per i consumatori; quando i mercati sono caratterizzati da asimmetria informativa e dunque informazioni necessarie al buon funzionamento del sistema economico sono possedute solo da alcuni operatori; e quando la distribuzione dei redditi è fortemente iniqua, così da contrarre in modo significativo i consumi delle classi più povere. Ma a loro dire questi fallimenti sono casi particolari dovuti a cause ben specifiche e non intaccano l’impianto liberista generale.

    L’astrazione dei modelli neoclassici, che non erano mai stati verificati nel sistema economico reale, dimostrerà tutta la sua inadeguatezza proprio nella crisi di Wall Street del ’29, un battesimo di fuoco che denuncerà il fallimento delle teorie liberiste su scala mondiale.

     Bene, al liberismo con la sua ricetta non interventista, Keynes oppone, al contrario, la centralità dello stato, il cui ruolo diventa cruciale soprattutto in momenti di recessione e stagnazione.

     Innanzi tutto, Keynes critica la legge di Say, sostenendo che l’offerta, ossia la produzione industriale di beni e servizi, lungi dal raggiungere spontaneamente il perfetto equilibrio, trova il suo limite nella domanda che proviene da consumatori e imprese (domanda effettiva). Quando l’offerta supera tale limite, si formerà immediatamente un eccesso di beni che rimarrà invenduto e senza sbocchi di mercato, rendendo necessaria per le imprese una riduzione della produzione, con conseguenti licenziamenti o riduzione delle ore di lavoro e degli stipendi. Ne consegue che la disoccupazione di massa è un fenomeno che si crea quando la domanda aggregata (cioè la richiesta di tutti i beni e servizi) è insufficiente, è molto bassa rispetto all’offerta. Ed è dunque a questo squilibrio che bisogna porre rimedio.

     L’economia keynesiana ruota attorno a 2 pilastri:

     1) l’espansione della domanda – strumento: intervento dello stato con politiche di deficit spending;

     2) la piena occupazione come obiettivo ultimo;

e ha come fulcro quest’assunto: in momenti di crisi dell’economia (recessione, stagnazione), lo stato, anziché contrarre la spesa pubblica, deve aumentarla, anche a costo di realizzare un deficit nel bilancio pubblico, in modo da stimolare la domanda aggregata.

     L’intervento pubblico per stimolare la domanda deve avvenire tramite investimenti finalizzati all’aumento della produzione. Quando la domanda aggregata è bassa, come nel caso della Grande depressione, una situazione che porta con sé il fenomeno della disoccupazione, l’investimento pubblico in attività produttive favorirà l’occupazione, e questo a sua volta favorirà l’acquisto di beni e servizi. Infatti, per aumentare la produzione, le imprese devono impiegare un numero maggiore di lavoratori o delle ore di lavoro, distribuendo una maggiore quantità di reddito alle famiglie, le quali a loro volta spenderanno questo maggiore reddito in consumi portando ad un aumento della domanda aggregata.

     La novità del modello keynesiano sta nell’idea che l’intervento statale a sostegno della domanda può essere fatto ricorrendo a politiche di deficit spending, ossia di investimenti fatti in regime di deficit di bilancio (o disavanzo = le entrate dello stato, gettito fiscale, sono inferiori alle uscite, spesa pubblica). In situazioni di crisi economica, cioè, lo stato deve sostenere la domanda tramite la spesa, e per fare questo non deve preoccuparsi di raggiungere il pareggio di bilancio o addirittura un avanzo. La spesa a deficit ha infatti un potenziale enorme: è in grado di generare un aumento più che proporzionale del reddito nazionale.

     Si tratta dunque di creare benessere e ricchezza in un’epoca di recessione, non tramite misure di austerity (politiche restrittive come tagli alla spesa pubblica e aumento dell’imposizione fiscale) che peggiorerebbero la situazione conducendo ad un ulteriore impoverimento della popolazione e, in definitiva, al crollo della ricchezza nazionale, ma tramite manovre espansive, come l’aumento della spesa pubblica e la diminuzione delle imposte.

     Va detto che, nonostante la sua teoria economica ruoti attorno all’intervento statale, Keynes non è un socialista. Scrive: “il problema politico dell’umanità è quello di combinare tre cose: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale”.  Keynes è un liberale progressista e crede nell’iniziativa economica privata, ma ritiene il capitalismo un meccanismo imperfetto, perché imperfetto è il sistema di mercato, non in grado di regolarsi da sé. Crede inoltre che una società libera debba basarsi sul principio di giustizia sociale e su un’equa distribuzione delle risorse, cose che il mercato non garantisce. La crisi del ’29 aveva chiaramente messo in luce che il mercato, lasciato a se stesso, costituisce invece un pericolo per la collettività in quanto in grado di distruggere la libertà e la dignità umana creando alti livelli di disoccupazione e povertà, pertanto l’intervento dello stato (tramite programmi, finanziamenti, leggi ad hoc…) ne diviene un indispensabile meccanismo regolatore. Coerentemente con questi assunti, per Keynes l’obiettivo ultimo e più importante per lo stato dev’essere la piena occupazione, essendo il lavoro quell’elemento fondamentale che garantisce la piena realizzazione umana, individuale e sociale dell’individuo. Solo così potrà crearsi una società davvero libera e giusta.

     In definitiva, si può dire che la teoria economica keynesiana è un connubio di elementi liberali e capitalisti (il mercato, l’iniziativa privata e la libertà di fare impresa) e socialisti (l’intervento statale regolatore, l’importanza della giustizia sociale).

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