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Le politiche neoliberiste in Europa  

 

L’Unione Europea

 

    Un’altra importante trasformazione statuale post guerra fredda riguarda l’Europa occidentale, che da comunità economica diventa una vera e propria unione politica. Con la Germania unificata avente funzione di economia trainante, nasce l’Unione Europea, che adotterà politiche neoliberiste a fondamento della sua struttura economica.

    Nel 1992 i paesi membri dell’allora CEE sottoscrivono il trattato di Maastricht, che pone rigidi paletti all’ingresso e alla permanenza degli stati nell’unione. I parametri di Maastricht –  a) rapporto tra deficit pubblico e PIL non superiore al 3%,  b) rapporto tra debito pubblico e PIL non superiore al 60%,  c) tasso d'inflazione non superiore all'1,5% di quello dei tre Paesi più virtuosi – mirano al contenimento del debito pubblico e dell’inflazione. L’adozione di una moneta unica, l’euro, avviene a cambi penalizzanti per le economie di diversi paesi membri, uno su tutti l’Italia. Si tratta di una moneta a debito, il cui controllo è demandato ad una banca centrale del tutto indipendente dalla politica degli stati e di essi non rappresentativa. La BCE, inoltre, non è prestatrice di ultima istanza, come di norma sono le banche centrali, e ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi e la lotta all’inflazione, senza alcun riguardo per lo stato delle economie dei paesi membri.

     La nascita dell’UE segna la fine della tradizionale politica di finanziamento della spesa pubblica in deficit di bilancio (deficit spending) di molti stati europei, che negli anni ’90 dovettero iniziare una rigorosa politica di risanamento dei conti pubblici. Questo percorso ha provocato in molti casi, e in particolare in Italia, un declino economico inarrestabile caratterizzato dalla diminuzione della produttività, dalla perdita della competitività sui mercati internazionali, dall’aumento vertiginoso del debito pubblico e da un impoverimento progressivo della popolazione, che negli anni è stata sempre più oppressa da aumenti nell’imposizione fiscale, da tagli alla spesa pubblica e da politiche di controllo orwelliano anti-evasione a tutti i livelli della società, tranne che a quelli imprenditoriali più alti. Nulla si contesta, infatti, a quei grossi gruppi industriali che scelgono di spostare la sede fiscale in altri stati europei con bassi livelli di tassazione. È la politica del dumping fiscale silenziosamente avallata dalla UE.

     In nome della concorrenza cosiddetta “leale” tra paesi membri, l’UE ha vietato gli aiuti di stato con cui un paese può sovvenzionare/salvare imprese anche molto importanti per la sua economia (perché, ad esempio, garantiscono alti tassi d’occupazione e alti livelli di produttività o costituiscono un’importante infrastruttura) perché questo procurerebbe loro un vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese europee. Però, poi, l’EU accetta che questa competizione si faccia abbassando le tasse il più possibile, cosicché le imprese sono incentivate a trasferire la sede legale e fiscale in quei paesi dove la tassazione è conveniente.

     Manca una politica europea comune in materia fiscale – che peraltro gli stati che praticano il dumping fiscale osteggiano – per cui ciascuno stato è libero di decidere il proprio regime. Ma questo è un modo ancora più scorretto di condurre la competizione perché ha l’effetto di sottrarre risorse importanti ad uno stato. “L'Italia perde ogni anno almeno 6,5 miliardi euro di entrate: finiscono nelle casse dei sei Paesi che stando al rapporto dalla commissione speciale sui crimini finanziari TAX3 "facilitano una gestione fiscale aggressiva”. Ci sono anche Cipro, Malta e Ungheria ma olandesi e lussemburghesi sono quelli che ci guadagnano di più impoverendo il resto dell'Unione” (Il Fatto Quotidiano, 20 aprile 2020).

 

    In Italia, i più grossi gruppi aziendali del paese si sono trasferiti in Olanda: l’ex Fiat (ora Fca), l’Exor della famiglia Agnelli, Mediaset della famiglia Berlusconi, e poi Eni, Enel, Telecom Italia, Luxottica (una delle prime, già dal 1999), Illy, Ferrero e molti altri. In Olanda le aliquote di tassazione per le imprese non sono bassissime, sul 20%-25%, ma sono quasi inesistenti i prelievi fiscali sui dividendi, per cui i proprietari di aziende possono rimanere in possesso dei profitti accumulati negli anni quasi nella loro interezza.

     Dunque gli stati europei da democrazie social-liberali, orientate ad un’economia di tipo solidale, in seno alla nuova istituzione UE si trasformano in alfieri del neoliberismo dediti solo al mercato. Questi stati oggi stanno combattendo una guerra economica non dichiarata ma reale, patrocinata dal capitalismo neoliberista e con il beneplacito dei leader europei.

    Va detto che dal dopoguerra i legami tra gli stati europei sono sempre stati economici. Nel 1957 Francia, Italia, Germania Ovest e i tre paesi del Benelux con i Trattati di Roma istituiscono la CEE, la Comunità economica europea, che si si basava su due pilastri, la CECA, la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e l’EURATOM, la Comunità europea dell'energia atomica. Viene creato un mercato comune (MEC) dove è prevista la libera circolazione di merci, servizi e capitali tra quei paesi. Segno di quanto solo l’economia fosse al centro di questo progetto è il fatto che la libera circolazione delle persone, invece, arriverà 30 dopo con gli accordi di Schengen (1985).

    Tuttavia, è solo con la costituzione dell’Unione Europea nel 1992 che questi rapporti economici tra stati hanno assunto le caratteristiche neoliberiste che oggi ben conosciamo. Prima del 1992 i paesi perseguivano liberamente la propria crescita economica con le strutture e i modelli economici confacenti con la propria storia e la propria tradizione. In molti casi si trattava di un modello ibrido, che coniugava elementi liberali e democratici con elementi socialisti. Le influenze del keynesismo avevano raggiunto l’Europa e ben si sposavano con quella che era la tradizione statalista di molte realtà europee. In Italia questa tradizione risaliva al periodo fascista, quando Mussolini per difendere il paese dagli effetti della crisi del ’29 adottò politiche di spesa pubblica per stimolare l’economia italiana e nel 1934 arrivò persino a imporre l’autarchia.  Del resto il modello liberal-socialista era un modello vincente. C’erano paesi che, adottandolo, avevano dimostrato nel corso degli anni una capacità produttiva e di crescita notevole. L’Italia negli anni ‘80 aveva superato il Regno Unito ed era la 5° potenza economica mondiale dietro a Stati Uniti, Giappone, Germania Ovest e Francia. Nel 1991 superò anche la Francia e divenne la 4° e, se non fosse entrata nell’UE, avrebbe probabilmente superato anche la Germania.

    Questo mondo è finito nel 1992 con la creazione dell’Unione Europea. Ora le decisioni vengono prese a livello centralizzato da forze sovranazionali indipendenti dagli stati. All’interno della nuova arena economica i giochi sono soggetti a regole ferree. Chiunque non adotti le misure consentite – tutte, come abbiamo detto, di stampo neoliberista – viene punito e sanzionato. I paesi che, come l’Italia, hanno dovuto adottare un modello economico estraneo alla loro tradizione e hanno dovuto abbandonare le politiche di spesa per ridurre il debito, hanno perso competitività e hanno smesso di crescere. L’Italia, fino agli anni ’80, era un paese molto competitivo sui mercati internazionali e dava del filo da torcere ai suoi vicini, mentre ora, controllato e irreggimentato dalle nuove regole europee che prevedono rigide politiche di bilancio e di controllo della spesa pubblica, ha perso la sua forza e ha cominciato a declinare. Inutile dire che dopo il suo ingresso nell’UE non costituisce più un ostacolo al primato di quegli stati che invece proprio grazie al suo declino stanno prosperando.

     Particolarmente violento è stato l’attacco dell’UE allo stato come agente economico, con l’accusa che era inefficiente ed era la causa del grande debito pubblico degli stati e che pure garantiva alla popolazione quei tassi di crescita e quel benessere che a partire dagli anni ’90 sarebbero stati sempre più decurtati. In Italia le aziende di stato realizzavano importanti utili di bilancio e rappresentavano il fiore all’occhiello dell’industria italiana. Ma con l’ascesa del neoliberismo l’elemento socialista in economia andava eliminato mentre quello liberale/liberista doveva essere esaltato come l’unico degno di essere perseguito se si volevano raggiungere efficienza, modernizzazione e leale concorrenza.   

    L’evento che rappresenta il primo attacco al socialismo in Europa è l’uccisione, nel 1986, di Olof Palme, leader della socialdemocrazia svedese e Primo ministro della Svezia. Palme era la figura di riferimento di tutto il socialismo europeo e la voce più forte contro le politiche reazionarie e imperialiste che venivano sia dall’America che dall’Unione Sovietica. Il suo assassinio ha rappresentato la decapitazione di un movimento che già faticava a stare a galla tra i processi della globalizzazione che mal si sposavano con l’interventismo statale e le nuove politiche neoliberiste che, come abbiamo visto, a partire dagli anni ’80 saranno dominanti ovunque.

     In Italia, l‘altro paese europeo a forte orientamento sociale, l’attacco allo stato è avvenuto tramite l’attacco alla sua intera classe politica e in particolare al leader socialista Bettino Craxi, che fu l’obiettivo primario della campagna giustizialista di Mani Pulite. Uscito di scena Craxi, ormai esiliato ad Hammamet, e finita l’epoca di Andreotti, che nel giugno 1992 terminerà il suo ultimo incarico di governo come Primo ministro, l’Italia può allinearsi senza ostacoli al nuovo corso. Una nuova classe politica verrà incaricata di traghettare l’Italia nell’Unione Europea a condizioni molto più deteriori per il popolo italiano di quelle che avrebbero accettato i vecchi politici – corrotti sì, ma molto meno pericolosi dei loro successori – e di attuare quella svendita degli assets del paese che è uno dei capisaldi delle politiche neoliberiste.  

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