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La fine di Donald Trump e l'attacco alla libertà di espressione

«Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati.»

Bertolt Brecht

 

Chiunque abbia un minimo di cultura democratica sa che il ban di Donald Trump da parte di tutti i social a seguito dell’assalto al Capitol Hill del 6 gennaio è un atto di fascismo. Fascismo. Né più né meno. La decisione di silenziare un Presidente legittimamente eletto che è espressione della volontà della maggioranza non può che appartenere alla politica o ai tribunali, non al fondatore di un social media, che non parla a nome di nessuno e non può arrogarsi alcun diritto in tal senso. E quando se lo arroga, è su questo che la società si deve interrogare con preoccupazione.

Dobbiamo ricordare che l’importanza della libertà di espressione negli Stati Uniti è tale che i padri fondatori la inserirono addirittura nel Primo degli Emendamenti della Costituzione (Bill of Rights): “Il Congresso non potrà emanare leggi per il riconoscimento di una religione o per proibirne il libero culto, o per limitare la libertà di parola o di stampa o il diritto dei cittadini di riunirsi in forma pacifica e d’inviare petizioni al governo per la riparazione dei torti subiti.”

 

La libertà di parola non è un privilegio che può essere offerto o tolto a qualcuno sulla base del merito, ma è un diritto fondamentale inalienabile per chiunque. E questo diritto è iscritto all’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dall’ONU il 10 dicembre del 1948, la cui stesura aveva visto l’impegno primario proprio degli Stati Uniti, e in particolare di Eleanor Roosevelt, la moglie dell'ex presidente Franklyn Delano Roosevelt.

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Peraltro gli screzi tra Twitter e Trump risalgono a ben prima dell’assalto al Capitol Hill. Da mesi i tweet del presidente venivano cancellati con la giustificazione che veicolavano informazioni false e tendenziose (sul coronavirus e altri temi importanti), o incitavano alla violenza (sul piano politico interno), come se Twitter avesse le informazioni giuste, le uniche che potessero essere divulgate, oppure potesse definire arbitrariamente cosa è violenza. Twitter ha agito come fosse il Verbo incarnato, il depositario della verità assoluta, mostrando di non avere alcun rispetto delle posizioni altrui e della loro libertà di espressione.  

Poi c’è la vicenda di Parler. Dopo i fatti del 6 gennaio, Parler, il social di riferimento di Trump e della sua base elettorale, è stato cancellato dagli store online di Apple e Google, i quali hanno addotto come giustificazione la presenza di contenuti che incitavano alla violenza. Amazon ha addirittura rimosso Parler dai propri server, rendendo la piattaforma di fatto inoperativa perché gli amministratori non sono riusciti a trovare in tempo un altro hosting, e dunque al momento è off line.

Subito dopo le elezioni del 3 novembre il social era stato preso d’assalto dai sostenitori di Trump che avevano cominciato ad utilizzarlo in massa e aveva raddoppiato i suoi iscritti, diventando in breve una delle app più scaricate su Android. Il fondatore e CEO di Parler, John Matze, che non è stupido, ha capito subito che la chiusura del servizio di hosting da parte di Amazon e il conseguente oscuramento della piattaforma andavano a tutto vantaggio di Twitter. Oscurando Parler si neutralizzava un pericoloso concorrente, che stava acquisendo sempre più consensi in America e minacciava la posizione di leader di mercato di Twitter. Matze e i suoi colleghi i giorni scorsi hanno annunciato di avere denunciato Amazon Web Servirces (AWS), giustamente.

Ma l’attacco alla libertà di espressione ha assunto proporzioni inquietanti con le dichiarazioni del fondatore di Twitter Jack Dorsey del 15 gennaio:   

“We are focused on one account [@realDonaldTrump] right now but this is going to be MUCH BIGGER than just one account & it’s going to go on for much longer..." [Per il momento ci stiamo concentrando su un solo account, ma questo assumerà ben altre dimensioni e andrà avanti ben più a lungo”.]

Parole spaventose che evocano il peggiore squadrismo fascista. Questi signori hanno iniziato una campagna di pulizia della rete – o dovremmo dire di “polizia” – e lo fanno invocando il diritto di colpire chi, secondo il loro arbitrio, ha scritto parole di “incitamento alla violenza”. E fanno anche credere alle masse di stare svolgendo un compito giusto e meritorio. A tutela della verità, dell’ordine e della democrazia.

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La verità è che i fondatori e CEO di questi giganti del web non sono indomiti baluardi della giustizia terrena, prodi difensori della pace e della democrazia mondiale contro gli attacchi violenti del presidente cattivo, come vogliono fare credere con le loro dichiarazioni ipocrite. 

Al contrario, sono l’espressione del capitalismo High Tech più spudorato, colossi finanziari con utili netti di decine di miliardi di dollari che, per giunta, spesso si comportano da veri e propri evasori fiscali nei vari stati in cui operano appellandosi al diritto di pagare tasse irrisorie in quanto multinazionali. Negli ultimi anni i giornali, non solo italiani, hanno affrontato spesso questa questione.

Le loro azioni non sono mosse da grandi ideali, ma da attente valutazioni di merito, sono mosse cioè da opportunismo.  E con opportunismo hanno operato anche in merito alla vicenda Trump.

Se analizziamo il discorso del Presidente al rally del 6 gennaio, che secondo i media avrebbe dato il via libera all’assalto del Capitol Hill (qui la trascrizione integrale), vediamo che non conteneva affatto un’esortazione alla violenza, in nessuna sua parte. Il “WE WILL FIGHT” che ripete qua e là, l’unica frase di tutto il discorso che potrebbe sembrare un po’ sopra le righe, è ovviamente riferita ai brogli, lo specifica Trump stesso. E significa che lui e i suoi combatteranno per vedere riconosciuto il loro diritto alla vittoria, quindi per avere nuovi riconteggi, continuare la battaglia legale e così via, fare cioè tutte quelle operazioni che possono restituirgli giustizia. Inoltre, l’esortazione finale a marciare lungo Pennsylvania Avenue non è per penetrare dentro Capitol Hill e razziare e massacrare, ma per contestare la vittoria rubata di Biden.

 

So we’re going to, we’re going to walk down Pennsylvania Avenue. I love Pennsylvania Avenue. And we’re going to the Capitol, and we’re going to try and give.

We’re going to try and give them the kind of pride and boldness that they need to take back our country.

So let’s walk down Pennsylvania Avenue.

I want to thank you all. God bless you and God Bless America.

Thank you all for being here. This is incredible. Thank you very much. Thank you.

 

È chiaro anche ai sassi che Trump con queste parole intende dire che non si lascerà mettere i piedi in testa dagli avversari politici e lui e i sui sostenitori marceranno per far sentire la loro voce, come è loro diritto. Non c’è l’ombra di un incitamento alla violenza, se non nelle pretese degli stessi avversari politici e dei media internazionali che sono i loro megafoni.

Quella voluta da Trump al Capitol Hill era una protesta pacifica e democratica, circoscritta a Pennsylvania Avenue, e come tale assolutamente legittima. Che per la maggior parte sia stata pacifica lo dimostrano peraltro le tante immagini e i tanti video che sono stati girati, ma ad un certo punto, su iniziativa di una minoranza di scalmanati, una parte della protesta ha preso una piega violenta. Da varie parti si è addirittura sostenuto che l’assalto fosse stato orchestrato appositamente con degli infiltrati per dare il colpo di grazia a Trump. Non lo escludo affatto, si sono viste immagini della polizia che anziché fermare i protestanti che si stavano dirigendo all’interno apriva i cancelli per facilitare loro il compito (dal minuto 0:50 in questo video amatoriale). Ma ciò che è interessante è vedere la reazione delle voci del mainstream. In moltissimi, tra commentatori, giornalisti, analisti politici e supporter del partito Democratico hanno usato parole apocalittiche come “atti di terrorismo, eversione e colpo di stato”. Si è persino detto che nei piani dei protestanti c’era il progetto di assassinare dei senatori!

Basta guardare Jake Angeli “lo sciamano” o il tizio che si è portato via il leggio o quell’altro ancora, che si è fatto il selfie sulla scrivania di Nancy Pelosi lasciandole la nota “WE WILL NOT BACK DOWN” per capire che si tratta di personaggi da operetta, figure caricaturali con davvero poca credibilità. Appena arrestati hanno smesso subito di fare gli sbruffoni e hanno cominciato a piagnucolare chiedendo perdono e dicendo di essersi limitati ad eseguire gli ordini (??) del presidente. Fa ridere l’idea che questi soggetti potessero pensare di assassinare qualcuno o addirittura portare avanti un golpe.

Quanto al poliziotto afroamericano Eugene Goodman, che secondo i media avrebbe salvato i senatori dirigendo i protestanti lontano da loro, quello che si vede da questo video è che ha effettivamente diretto i protestanti in determinate aree del Capitol Hill, ma la domanda che sorge spontanea è: perché i protestanti lo hanno seguito come fosse una guida turistica?! È pazzesco. Se davvero fossero stati i pericolosi sovversivi con un progetto criminale in testa (assassinare, ferire, sparare, fare un golpe…), avrebbero dovuto quantomeno assalire Goodman, che era da solo e dunque vulnerabile. E che fanno invece? Lo seguono sbraitando un po’ ma tutto sommato ordinatamente e senza fare troppe storie.

Infine, i morti non li hanno uccisi i protestanti con le armi: un paio di poliziotti si sono inspiegabilmente suicidati alcuni giorni dopo l’assalto, mentre un terzo è morto, pare, per le lesioni riportate negli scontri. Alcuni protestanti sono rimasti schiacciati mentre la folla forzava in blocco gli ingressi. La vittima simbolo dell’assalto, la veterana dell’aeronautica Ashli Babbitt, l’ha invece uccisa la polizia che, come da tradizione americana, le ha sparato vigliaccamente alle spalle mentre non stava compiendo nessuna azione ed era completamente inerme.

Beninteso, quello che è successo al Congresso è grave. Le immagini dei protestanti che si arrampicano su muri e cancelli e che infrangono i vetri delle finestre per entrare sono state fatte vedere continuamente per giorni e giorni ad ogni ora e hanno colpito l’immaginario di tutti noi. È stato un episodio senza precedenti, il cui peso è stato aggravato dal fatto che gli Stati Uniti sono considerati la culla della democrazia occidentale e il Congresso il tempio della democrazia americana.

E’ chiaro che quanto è accaduto sarà un grosso boomerang contro il Partito repubblicano, che infatti si è dissociato immediatamente per poter riacquisire credibilità di fronte all’opinione pubblica americana e internazionale. Arnold Schwarzenegger, il noto attore ed ex governatore della California, è tra repubblicani che più hanno attaccato Trump. In un video diffuso in rete subito dopo l’assalto al Congresso, lo ha definito “un fallito” e “il peggior presidente della storia” e, facendo un paragone con il pogrom nazista del 1938, ha definito l'assalto “la notte dei cristalli d'America". Non meno tenero è stato l’ex presidente George Bush Jr, che ha condannato le violenze di Capitol Hill –  dimenticando però quelle, di ben altre proporzioni, che ha esso stesso promosso e avallato con la global war on terror – e ha definito Trump un mob leader (boss mafioso).

Bisogna però anche guardare alle cause che hanno portato a questa situazione. L’assalto al Congresso è stato l’ultimo atto di un’escalation di tensione ed esasperazione che durava da tempo e che ha raggiunto il culmine a seguito delle elezioni del 3 novembre, elezioni che moltissimi americani ritengono truccate. Su questo punto le voci autorevoli non mancano. Tra le tante, c’è quella di Paul Craig Roberts, famoso economista e scrittore americano.

Nell’articolo The Proof Is In: The Election Was Stolen, Roberts afferma che la macchina dei brogli è stata messa in moto in tutti gli stati, non soltanto in Georgia, Wisconsin e Pennsylvania. Il sistema informatico che raccoglieva i voti è stato programmato per diminuire il vantaggio di Trump in tutti gli stati, anche in quelli rossi (che votano repubblicano), con lo scopo di rendere credibile una vittoria schiacciante di Biden negli stati blu (che votano democratico) e negli swing states, quelli cioè che non votano né repubblicano né democratico e che pertanto sono corteggiatissimi ad ogni elezione presidenziale. Sarebbe infatti poco credibile che Biden avesse vinto negli stati rossi (repubblicani) e poi avesse vinto solo di misura in quelli blu (democratici) e negli swing. Dunque, il margine di vantaggio di Trump doveva essere diminuito ovunque per far credere a una vittoria schiacciante di Biden a livello nazionale. Negli swing states, invece, si è proceduto con brogli veri e propri. Dice Roberts (traduzione mia):

 

Il motivo per cui in queste città [Milwaukee, Detroit, Philadelphia ed Atlanta, tutte a controllo Democratico] gli spogli dei voti furono fermati nel mezzo della notte è che bisognava preparare i voti postali per ridurre lo schiacciante vantaggio che Trump stava avendo e inserirli nel conteggio. Fu in quel momento che agli scrutinatori dei seggi fu detto di andare a casa ed è in quel momento che gli scrutinatori sia democratici che repubblicani hanno assistito a numerosi brogli di qualsiasi tipo.

Ci sono voti comprovati dalla tomba, da persone non registrate, da persone residenti in altri stati. Ci sono schede postali retrodatate. Ci sono schede postali senza la piega, cioè la scheda non è mai stata piegata e messa nella busta e così via. Ci sono luoghi dove il numero totale dei voti supera quello dei votanti registrati.

 

Un numero di analisti indipendenti ha riportato che l’impennata di voti per Biden delle prime ore del mattino è o impossibile o talmente improbabile da avere una bassissima probabilità di verificarsi. Per loro, che questo poi si verifichi contemporaneamente in svariati stati non rientra nel campo della credibilità.

 

Roberts conclude con osservazioni molto pertinenti, che peraltro abbiamo fatto in tanti dopo l’esito delle elezioni presidenziali:

Considerate che l’account Twitter di Joe Biden ha 20 milioni di followers, l’account Twitter di Trump ne ha 88,8 milioni. L’account Facebook di Joe Biden ha 7,78 milioni di followers, l’account Facebook di Trump ne ha 34.72 milioni. Che probabilità c’è che una persona con 4 o 5 volte il numero dei followers del suo rivale perda le elezioni?

Considerate che Joe Biden, che secondo la stampa di mainstream avrebbe vinto le elezioni con una valanga di voti, ha tenuto un discorso in occasione della giornata del Ringraziamento [25 novembre] che fu guardato solo da 1000 persone. Dove sarebbe l’entusiasmo?

Considerate che tutte le uscite di Trump in campagna elettorale hanno visto una fortissima partecipazione e quelle di Biden sono state praticamente disertate. In qualche modo, un candidato che non è riuscito ad attirare sostenitori ai suoi comizi ha vinto le presidenziali.

E aggiungo che alla cerimonia di inaugurazione di Biden del 20 gennaio c’erano due persone in croce, per lo più politici. Nei video mostrati dalle televisioni si sono visti soprattutto i primi piani dei partecipanti, ma ogni tanto alle telecamere scappava qualche inquadratura a campo lungo e si vedeva una desolazione incredibile. I media americani hanno affermato che la sobrietà e la modestia della cerimonia sono state una risposta ai fatti di due settimane prima e poi una precauzione necessaria per il Covid. Per questo la nuova amministrazione, pur non vietando l’assembramento, aveva incoraggiato le persone a seguire la cerimonia da casa. Eppure, se Biden avesse stravinto le elezioni e avesse una marea di sostenitori come ci raccontano, sarebbe solo logico supporre che molti – o per lo meno alcuni – di questi volessero ugualmente mostrare il loro appoggio partecipando. Esattamente come hanno fatto i sostenitori di Trump nei giorni precedenti.

Non si è mai vista, a memoria d’uomo, una partecipazione popolare così scarsa ad un’inaugurazione presidenziale. Nei difficili giorni della Grande depressione –  ben più duri di quelli che dobbiamo sopportare noi con il Covid – quando milioni di persone rimaste senza un cent in tasca morivano di fame, e in assenza dei mezzi di trasporto di oggi, F.D. Roosevelt aveva radunato al suo insediamento una marea di persone. Lo si vede bene in questo video dell’epoca dal minuto 9:20 in poi.  

Nella foto qui sotto, la folla oceanica pro Trump del 6 gennaio.

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Qui sotto, invece, la misera partecipazione popolare all’insediamento di Biden. È davvero poco plausibile che nessuno, ma proprio nessuno, delle decine di milioni di americani che secondo le autorità avrebbero votato per Biden abbia voluto presenziare nell’area libera e aperta, oltre i posti riservati ai politici.

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Ad ogni modo, brogli a parte, ci sono state delle cose che hanno indebolito la posizione di Trump. Innanzi tutto, con l’avanzare della pandemia a ritmo molto sostenuto nel corso del 2020, il Presidente non ha potuto limitare l’uso dello strumento postale nelle elezioni di novembre e questo ha favorito i brogli. Stiamo parlando di ben 100 milioni di voti arrivati per posta su un totale di 212 milioni, un numero talmente massiccio da riuscire a modificare l’esito delle elezioni.

Poi ci sono stati veri e propri errori che Trump ha commesso durante il suo mandato.

A livello di strategia elettorale, ha scelto di dare sostegno alle parti più retrograde e fondamentaliste del cattolicesimo e del cristianesimo, che pretendono di opporsi alle storture della globalizzazione col ritorno al medioevo. Ha esternato, e lasciato esternare pubblicamente a sua figlia Ivanka, posizioni molto personali di condanna del diritto all’aborto, senza contare che al giorno d’oggi la maggioranza degli elettori è a favore della libertà di scelta. Si è schierato pubblicamente a favore dei pro-life, quelli che mentre uccidevano un medico abortista all’uscita dell’ospedale gli gridavano: “Assassino! Assassino!”. La vicinanza a questa gente, che andava invece allontanata e isolata, ha dato la percezione di un presidente che non è in grado di guardare alla modernità su temi ritenuti importanti.

Trump ha voluto inseguire i voti dei cattolici fondamentalisti e ultra conservatori e questo gli ha anche precluso le simpatie di quella parte del Partito repubblicano che non è interessata ai temi religiosi o che appartiene ad una religione dove l’aborto non è una questione impellente come per i cattolici. Con questa scelta di campo, Trump ha dato un’immagine di se stesso fuorviante perché, in fondo, non è un conservatore reazionario, al contrario, da buon newyorkese è sempre stato molto liberal nello stile di vita. È persino apparso come se stesso in un episodio di Sex and the city!

Un altro aspetto negativo sono le condanne a morte, che hanno offerto un’immagine mortifera e violenta della presidenza. Specie alla fine del mandato, dopo le elezioni di novembre, è stata un’esecuzione dopo l’altra, e l’amministrazione Trump sembrava più un gatto pronto a marchiare il territorio in tutta sicurezza prima di andarsene. Da 130 anni non si eseguivano condanne a morte nella fase di transizione da un presidente ad un altro. La vicenda di Lisa Montgomery, giustiziata a pochi giorni dall’insediamento di Biden e che per una serie di motivi poteva invece essere graziata (la malattia mentale, i numerosi abusi fisici da bambina), è un esempio davvero poco edificante per Trump.

In politica estera l’assassinio del generale Soleimani lo ha reso inviso a buona parte del mondo mediorientale e molte critiche gli sono arrivate anche dall’Occidente, sia perché si era violata la sovranità di un altro stato, sia per il rischio che si scatenasse una nuova guerra.  Qassem Soleimani, fedelissimo della guida suprema iraniana Khamenei e numero due del regime, fu ucciso il 3 gennaio 2020 nell’aeroporto internazionale di Baghdad, dove era da poco arrivato, da missili lanciati contro la sua auto per mezzo di un drone Usa.

L’attacco fu assolutamente sproporzionato e ingiustificato, soprattutto perché Soleimani non stava pianificando attacchi contro gli Usa, come confermato dal capo del Pentagono Mark Esper, e poi perché il generale è stato l’unico vero baluardo contro l’espansione dell’Isis in Medioriente. L’impressione è che Trump abbia ceduto ad una richiesta che veniva da certi ambienti del Partito repubblicano, quelli neocons ebraici e sionisti, molto coinvolti nei giochi mediorientali e impegnati nel sostegno a tutto tondo a Israele, di cui l’Iran è nemico giurato. L’assassinio di Soleimani fu molto probabilmente uno scambio di favori tra Trump e l’ala neocons: se il presidente avesse firmato l’ordine per uccidere il generale, i repubblicani al Senato lo avrebbero fatto assolvere nella procedura d’impeachment che si era aperta a seguito dell’Ucrainagate. E infatti il Senato a maggioranza repubblicana lo assolse subito dopo.

Infine, in politica interna Trump appena insediato vietò l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette paesi arabi non alleati (Somalia, Sudan, Iran, Iraq, Siria, Yemen e Libia – successivamente l’Iraq fu escluso). Il provvedimento, noto come Muslim ban, fu preso per motivi legati al terrorismo, ma in realtà fu una discriminazione arbitraria enorme nei confronti delle molte persone di quegli stati che nulla avevano a che fare con l’estremismo terrorista. Inoltre, il ban causò un aumento delle aggressioni e delle discriminazioni interne contro i musulmani residenti. Uno dei primi ordini esecutivi di Biden dopo l’insediamento è stato, giustamente, rimuovere il ban.

Insomma, non si può dire che Trump sia stato uno statista di alto livello, ma gli va riconosciuto di aver fatto delle cose positive per l’America. Non per i potentati internazionali o per il capitalismo finanziario mondialista e transazionale ma per la sua America, che rappresentava democraticamente e di cui aveva la responsabilità politica. E a seguito dei fatti degli ultimi due mesi, posso dire che Trump è senz’altro migliore dei suoi critici e oppositori, a partire da quelli democratici, che nei loro attacchi sono stati abbondantemente supportati dai media.

Grazie ai media, infatti, è stata montata una campagna d’odio contro Trump, che sin dall’inizio della presidenza è stato dipinto senza appello e a prescindere come un idiota e un buffone, e in quanto outsider della politica come un presidente improvvisato senza nessuna capacità. Ma lui e il suo staff non erano degli sprovveduti, anzi, nei 4 anni di presidenza hanno agito avendo in mente obiettivi molto chiari. Lo slogan con cui Trump ha vinto le elezioni è America First = fare qualunque politica in modo da servire l’interesse nazionale e realizzare il benessere del popolo americano. Immigrazione, commercio internazionale, adesione ad accordi e trattati internazionali, ecc… tutto doveva essere rivisto alla luce di questo obiettivo, con il fine ultimo di fare l’America di nuovo grande (Make America Great Again).

Con questo spirito l’Amministrazione Trump ha deciso, ad esempio, il ritiro dall’Accordo di Parigi sul clima, volto a limitare le emissioni di carbonio, criticando la posizione ormai condivisa da tutti gli stati del mondo sul riscaldamento globale. Allo stesso modo, ha deciso il ritiro dall’Accordo sul nucleare con l’Iran, ritenuto inefficace nel limitare le attività di sostegno dell’Iran al terrorismo. Nell’estate 2020 ha iniziato la procedura di ritiro degli Usa dall’OMS, considerata inefficiente e troppo vicina alle posizioni della Cina che negava la creazione del Coronavirus nei laboratori di Wuhan. Il ritiro si sarebbe formalmente concluso il 6 luglio 2021 se Trump fosse stato rieletto.

Ancora, l’Amministrazione Trump non solo non ha iniziato alcuna guerra internazionale, al contrario di tutti i suoi predecessori a partire dagli anni ‘90, ma ha ridotto la presenza militare degli Stati Uniti in zone di crisi e di conflitto. Nel corso del mandato, ha smobilitato buona parte delle truppe americane in Afghanistan e Iraq, la cui presenza risaliva agli interventi militari voluti da Bush Jr dopo l’attacco alle Torri gemelle, e in Somalia, dove erano impiegate per frenare le attività dei gruppi islamisti nel Corno d’Africa. Con riferimento alla tensione sorta tra Usa e Iran per l’assassinio di Soleimani, va detto che era improbabile che l’Iran, che non possiede la stessa tecnologia e i mezzi militari degli Usa, potesse optare per una retaliation tanto forte da scatenare un conflitto armato su scala internazionale.

Ma la politica più importante che ha contraddistinto il mandato è stata quella commerciale, caratterizzata dalla volontà di porre limitazioni al libero mercato globale, specialmente quello cinese, e da un maggiore sostegno al mercato del lavoro interno e all’economia nazionale.

Straordinaria è stata l’attenzione che Trump ha dato ai lavoratori americani, che erano stati sacrificati dai governi precedenti, incluso quello di Obama, in ossequio alle politiche produttive della globalizzazione, tutte improntate alla delocalizzazione selvaggia. Da almeno 20 anni il Made in Usa non esiste più perché in America non si produce più nulla e le produzioni sono state spostate in paesi a basso costo del lavoro come Cina e Sud-est asiatico. Di conseguenza, masse di lavoratori americani si sono trovati disoccupati, intere città sono fallite perché i loro distretti industriali si sono svuotati e sono diventate città fantasma. Con questo bene in mente, nel 2016 Trump fece la sua campagna elettorale visitando proprio gli stati e le città maggiormente colpiti dalla delocalizzazione e negli affollatissimi comizi si rivolse ai lavoratori, promettendo loro che d’ora in poi le imprese che avessero delocalizzato avrebbero dovuto pagare delle imposte statali salate. Non c’è da stupirsi che i lavoratori americani in quelle elezioni lo abbiano votato in massa.

La guerra dei dazi con la Cina, iniziata nel marzo 2018, ha visto l’introduzione progressiva di una serie di dazi doganali sulle importazioni di merci, materie prime (acciaio, alluminio) e prodotti tecnologici cinesi. La Cina ha sempre risposto, imponendo all’interno tasse sulle importazioni americane e innescando così un gioco al rialzo da parte degli Usa. La guerra si è conclusa, dopo quasi due anni, nel gennaio 2020 con la firma di un accordo commerciale che prevede l’impegno della Cina ad acquistare merci americane per almeno 200 miliardi di dollari e l’impegno degli Usa di non imporre nuovi dazi alla Cina, mantenendo quelli esistenti alla data dell’accordo.

 

La guerra commerciale e l’accordo che ne è seguito sono stati il primo tentativo da parte di un paese occidentale di fermare lo strapotere economico cinese e, più in generale, di mettere in discussione le politiche inique della globalizzazione.

Appena insediato, Biden si è affrettato a rimettere in cima all’agenda le politiche globaliste e dei rapporti internazionali, cancellando alcune delle politiche simbolo di America First: aiuti agli immigrati e ricongiunzione delle famiglie separate durante il mandato precedente, stop ai finanziamenti per la costruzione del muro con il Messico, reingresso nell’OMS e nell’Accordo di Parigi sul clima. Biden ha però firmato anche un importante ordine esecutivo che ha per obiettivo privilegiare il Made in Usa per rilanciare l’economia nazionale. Questo fa supporre che, almeno sulle questioni del commercio internazionale e dei dazi, ci sarà continuità con il suo predecessore.

Dopo questa lunga disamina delle vicende che hanno portato alla sua fine, si capisce che Trump non è la minaccia alla democrazia che i media ci hanno fatto credere e l’America non ha corso alcun pericolo con lui.

Trump è stato silenziato dai social media per le sue posizioni politiche, perché ha posto un freno all’estensione delle politiche della globalizzazione che favoriscono le élite e il grande capitale internazionale anziché gli Stati Uniti.  È stato silenziato perché ha detto la verità di queste elezioni e ha osato opporsi con piglio deciso alla frode elettorale organizzata per fermarlo.

Con questa vicenda i fondatori dei social hanno dimostrato di supportare quel network di potere globale e sovranazionale che non tollera ostacoli di nessun tipo alla sua espansione e al suo predominio, specie quello incarnato dal sovranismo. Del resto era prevedibile. Parliamo di uomini ricchissimi e questa ricchezza deriva loro proprio dall’offrire servizi su scala globale che coinvolgono milioni/miliardi di utenti. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, è anche quest’anno l’uomo più ricco del mondo e Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, rientra da anni nella top ten. Qui la classifica Forbes del 2020.

 

Quella contro Trump è stata una guerra di potere su scala internazionale tra istanze sovraniste, espresse dalla destra repubblicana, e poteri globali, i cui molteplici interessi sono promossi e tutelati soprattutto dal partito democratico. I fondatori dei social, per la natura sovranazionale dei servizi che offrono, si sono schierati a favore di un ritorno a quell’America globale e globalizzata pre-Trump che è stato chiesto al democratico Biden di incarnare. I fatti del 6 gennaio sono stati l’occasione, secondo me voluta e organizzata, per sferrare l’attacco finale a Trump. Il ban dai social che ne è seguito ha rappresentato l’ultimo atto di un braccio di ferro che era in corso da tempo e il cui esito ha mostrato al mondo intero lo strapotere dei grandi attori della globalizzazione quali sono i giganti del web. 

Del resto, che l’estromissione di Trump dai social non riguardi un presunto incitamento alla violenza risulta evidente se facciamo un parallelo con quanto avvenuto in occasione delle primavere arabe del 2009-2011, una serie di proteste e agitazioni in Medioriente con cui, soprattutto i più giovani, si sono ribellati alle leggi liberticide e alle tradizioni vetuste dei loro paesi. Le ribellioni hanno visto l’utilizzo massiccio dei social media, tramite cui sono stati lanciati strali contro i governi e organizzati sit-in e sommosse fino all’incitamento al colpo di stato vero e proprio. Eppure, nessun fondatore di social ha bannato e tantomeno condannato pubblicamente l’uso della violenza da parte dei rivoltosi, che hanno quindi potuto continuare le loro attività di destabilizzazione finché i loro governi non sono caduti. I Fratelli Musulmani – non certo dei campioni di democrazia e diritti umani con il loro islamismo radicale – che in Egitto hanno rovesciato Mubarak ed hanno instaurato, anche se per poco, una semi-dittatura islamista non hanno minimamente preoccupato la democratica Amministrazione Obama. È difficile pensare che il rovesciamento di quei governi chiusi, tradizionalisti, ostili all’Occidente non fosse gradito a un certo potere sovrannazionale, soprattutto americano e anglosassone.

Dunque l’atteggiamento discriminatorio dei social contro Trump e i suoi sostenitori è un fatto. E questo deve fare riflettere su cosa sono diventati oggi i giganti del web – il Big Tech – e qual è il loro reale potere. Un potere enorme e ben superiore a quello degli stati, in grado di arrivare nel tempo di un clic là dove invece governi e tribunali non possono arrivare se non con procedure burocratiche che durano anni.

La vicenda Trump ha iniziato un dibattito nel mondo occidentale che ha coinvolto giornalisti, giuristi e leader politici. In Polonia il governo ha appena presentato al Parlamento una proposta di legge che rende illegale la sospensione degli account che non vanno contro la legge nazionale. Anche in Europa le reazioni critiche alla sospensione di Trump non sono mancate e i maggiori leader europei, da Angela Merkel al Commissario europeo Thierry Breton, nei giorni scorsi hanno lanciato l’idea di mettere delle regole all’arbitrio censorio dei social. Sono iniziative giuste, che hanno la funzione di spostare il baricentro dalla parte degli stati, che in questo modo, anziché restare attori deboli del mondo, consolidano la loro sovranità e la loro autorità.

Monica Maria Vittoria Morandi

(gennaio 2021)

© Riproduzione riservata – Qualsiasi riproduzione, anche parziale, del presente saggio senza l’autorizzazione dell’autrice è vietata.

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