MonicArt
monica Morandi
Cinque canzoni
Cupe vampe
CSI, 1996
Di colpo si fa notte, s'incunea crudo il freddo
La città trema, livida trema
Brucia la biblioteca, i libri scritti e ricopiati a mano
Che gli ebrei sefarditi portano a Sarajevo in fuga dalla Spagna
Giovanni Lindo Ferretti, autore dei testi e storico cantante dei CCCP, poi dei CSI e infine dei PGR, scrisse Cupe vampe in occasione della guerra in Bosnia-Erzegovina del 1992-95, il primo dei due conflitti armati sanguinosi che coinvolsero parti della Federazione Jugoslava e che alla fine degli anni ’90 portarono alla sua dissoluzione. Era dalla fine della seconda guerra mondiale che l’Europa viveva in tempo di pace, i conflitti armati interni al continente si consideravano definitivamente superati, per cui l’impatto delle due guerre sull’opinione pubblica europea – e particolarmente italiana, per la vicinanza geografica con la zona interessata dalle ostilità – fu enorme.
Tra le violenze e le distruzioni che si consumarono, e che furono messe in atto da ambo le parti del conflitto, è passato alla storia l’assedio della città di Sarajevo, perpetrato dalle forze serbo-bosniache al comando di Milosevic, contrario a qualsiasi forma d’indipendenza della Bosnia-Erzegovina dalla Jugoslavia. Proprio l’assedio di Sarajevo, con la distruzione della splendida biblioteca nazionale, è al centro del testo di Ferretti.

Vedran Smailović suona il violoncello tra i ruderi della biblioteca nazionale di Sarajevo nel 1992 (fonte: Wikipedia)
E’ la notte del 25 agosto 1992, a Sarajevo fa freddo per via della sua posizione collinare e “la città trema come creatura”, colpita dalle bombe incendiarie e dalle cannonate lanciate dalle colline circostanti. La “città trema” come fosse viva, come i suoi abitanti, bombardati dalle forze serbo-bosniache e stretti in un assedio lungo e snervante. Ad essere colpito è anche il bellissimo palazzo in stile moresco sede della biblioteca nazionale, che è subito avvolto dalle fiamme (“s'alzano i roghi al cielo, s'alzano i roghi in cupe vampe”) e che nel giro di un giorno brucia interamente, mandando in fumo quasi tutti i suoi volumi. Si tratta di centinaia di migliaia di testi antichi di diverse culture e religioni, tra cui figurano i codici medievali che nel 1492 gli ebrei sefarditi avevano portato in Jugoslavia, dopo essere stati espulsi dalla cattolicissima Spagna di Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona.
“Bruciano i libri, possibili percorsi, le mappe, le memorie, l'aiuto degli altri” canta Ferretti. La distruzione dei libri è la distruzione della memoria, delle tracce che questi ebrei lasciarono dietro di loro a documentarne il cammino, la storia, la cultura. Ma brucia anche “l’aiuto degli altri”, ossia l’aiuto di chi appartiene ad una fede e ad un’etnia diversa. Viene meno la fratellanza, la solidarietà umana che quei testi che coesistevano insieme, uno vicino all’altro, rappresentavano. Ora, impauriti e chiusi nelle loro “livide stanze”, gli abitanti di Sarajevo, i bosniaci musulmani, che fino a poco prima avevano convissuto più o meno pacificamente con le altre etnie jugoslave e le altre fedi, devono stare in guardia, perché il principale di quei gruppi religiosi ed etnici, i serbo-bosniaci nazionalisti, cristiani ortodossi o cattolici, sono diventati dei nemici assassini (“occhio cecchino etnico assassino”)
Infine ci sono le responsabilità, e qui l’intera civiltà è sotto accusa.
C’è la responsabilità di coloro che manipolano l’opinione pubblica, orientandola contro coloro che vanno considerati nemici e suscitando per questi sentimenti di ostilità e avversione (“ci fotte la guerra che armi non ha"); c’è la responsabilità degli organismi occidentali, che per portare la pace non esitano a fare la guerra, contribuendo a catastrofi umanitarie e devastazioni, ad es. la NATO, che pochi anni dopo, con il beneplacito delle sinistre europee, bombarderà Belgrado scatenando una guerra ancor più devastante (“ci fotte la pace che ammazza qua e là”); c’è la responsabilità dei leader religiosi, che contribuiscono alle divisioni, spesso chiusi nei perimetri della loro fede e nella convinzione che la loro religione è l’unica vera (“ci fottono i preti i pope i mullah”).
Poi c’è l’ignavia di chi non ha fatto abbastanza, come l’ONU, o non ha fatto nulla per intervenire, come l’Europa. Il coinvolgimento delle Nazioni Unite nella guerra in Bosnia-Erzegovina fu immediato ma inconcludente e venne ben presto soppiantato da quello più risoluto della NATO e degli Stati Uniti di Bill Clinton, che miravano a mantenere il nuovo assetto delle indipendenze post guerra fredda e presero a sostenere militarmente le repubbliche indipendentiste. L’Unione Europea, di fresca costituzione ed entità statuale confinante, se ne è stata a guardare. Un paese coinvolto in una spaventosa guerra civile chiedeva aiuto e l’Europa non ha risposto. Ma anche gli Jugoslavi, gli slavi del sud, sono europei, “europei dei Balcani”, come li definisce giustamente Ferretti.
L’intera civiltà occidentale, nei suoi organismi e nelle sue strutture di potere politiche e militari, ha fallito e le sue responsabilità sono sintetizzate nella strofa finale: “questa è la favola della viltà”.
Sono parole di assoluta forza e potenza, sono una denuncia contro gli interessi politici, economici, militari, nazionali e internazionali, che sempre stanno dietro ogni intervento militare. La guerra in Bosnia-Erzegovina è un evento che Ferretti deve aver sentito molto, che lo ha colpito nel profondo dell’anima, perché parole di un’intensità simile non possono che essere il frutto di un coinvolgimento profondo.
Le musiche che accompagnano il testo, frutto della collaborazione tra Gianni Maroccolo, Massimo Zamboni, Francesco Magnelli e Giorgio Canali, sono altrettanto potenti e vibranti e si abbinano perfettamente alla forza delle parole. La chitarra distorta di Zamboni contribuisce a rendere il brano molto disturbante, ma questo è in linea con l’”aurea” del pezzo. La versione dei PGR presentata al concerto di Montesole del 21 giugno 2001 è, secondo me, ancora più bella dell’originale. Qui è predominante il pianoforte di Gianni Maroccolo e la voce di Ginevra Di Marco, musicalmente educata, contrasta con quella di Ferretti, bassa e inquieta, ma ne rappresenta anche il perfetto complemento.
Il risultato di questo connubio di testo e musica è un lavoro di grande pregio, direi uno dei lavori più pregiati che mi sia capitato di ascoltare. Se c’è una parola che può definirlo, particolarmente la versione di Montesole, è solennità. Ecco, Cupe vampe è una canzone solenne.
La versione dei PGR al concerto di Montesole del 2001
La cura
Franco Battiato, 1996
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare
Ti salverò da ogni malinconia
Perché sei un essere speciale
Ed io, avrò cura di te
Di primo acchito La cura sembra una canzone d’amore, la cura di una persona che ci è cara (“perché sei un essere speciale, ed io avrò cura di te”). Forse un innamorato? Alcuni versi suggerirebbero di sì: “i profumi d'amore inebrieranno i nostri corpi, la bonaccia d'agosto non calmerà i nostri sensi”. E ancora, in un senso più profondo: “supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare”, che potrebbe essere letto come la volontà di rendere imperituro l’amore per la persona amata. Voglio tenerti al mio fianco per sempre e sono pronto a muovere le leggi del mondo, a sconvolgerle, pur di fermare il tempo, che inesorabilmente ci deperisce e un giorno ci dividerà.
Ma conoscendo gli interessi e la spiritualità di Franco Battiato, possiamo pensare anche ad un’interpretazione più profonda e meno sentimentale, meno fisica e più “metafisica”. Non a caso Battiato, spiegando la genesi di questa canzone, spiegò che gli era arrivata dall’alto, da una “cellula superiore” e parlò di amore veramente universale. Disse:
“E’ una canzone che ha un quid insondabile di ispirazione. C’è una grande differenza tra il comporre canzoni come mestiere e avere ispirazioni. La Cura è una di quelle che è arrivata come da una cellula superiore. È arrivata come una piccola luce a toccarmi e mi è bastata per scrivere questo pezzo. Il testo poi lo abbiamo scritto a quattro mani con Sgalambro, però la cellula è stata di amore veramente universale”. (Link)
E per sua natura l’amore universale supera i limiti dell’amore filiale, sensuale o fraterno. L’amore universale costituisce “il tutto” ed è il punto d’arrivo di un percorso di crescita spirituale, laddove l’amore per il singolo costituisce solo una parte di questo tutto e, seppure importante, al massimo è un punto di partenza verso una comprensione più grande.
Potremmo dire che nel brano a parlare è la nostra parte spirituale, in relazione dialettica con la parte umana, pienamente immersa nella vita terrena con le sue difficoltà e le sue paure. Lo spirito è più connesso dell’umano al divino, all’universo e al cosmo, e può guidare l’essere umano – per quello che può – verso la verità delle cose ("Conosco le leggi del mondo e te ne farò dono"). La paura, il turbamento, il dolore, l’ingiustizia, il fallimento sono tutte condizioni che l’essere umano sperimenta in vita. Sono connaturate all’esistenza di ognuno e non le possiamo eliminare. Ma il nostro spirito, più elevato rispetto alle cose terrene, può insegnarci a comprenderle e a superarle, perché il suo compito, se noi glielo permettiamo, è prendersi cura di noi.
E allora, se solo noi potessimo aprirci di più al mondo superiore, aprire le braccia alla nostra parte spirituale e accogliere l’enorme saggezza che è in essa, allora potremmo dirigerci verso una comprensione del mondo che è prima di tutto guarigione, guarigione dalla paura, dal turbamento, dal dolore, dall’ingiustizia, dal fallimento ("E guarirai da tutte le malattie"). Il silenzio e la pazienza, virtù del tutto vituperate nelle moderne società, sono gli ingredienti fondamentali per la crescita spirituale, che ci permettono di ricongiungerci con la parte più profonda di noi e con quell’amore, quel tutto universale di cui siamo parte. ("Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza, percorreremo assieme le vie che portano all'essenza").
Il verso “supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare” acquista qui ben altro significato rispetto alla volontà di rendere eterno il rapporto con la persona amata. È un rapporto di amore puro, etereo quasi, pieno di benevolenza, che ci lega profondamente al nostro spirito e che lega il nostro spirito al divino e a tutte le cose.
La cura è un brano di rara bellezza, non solo per la finezza e la poeticità dei versi (“tesserò i tuoi capelli come trame di un canto” … “non hai fiori bianchi per me?”), ma anche per la profonda spiritualità in esso contenuta. Ci ricorda, e oggi ce n’è un gran bisogno, che non siamo solo carne tremula e senziente, desiderosa di soddisfare qualsiasi voglia terrena, ma siamo parte di qualcosa di più grande, di un progetto più grande. Per comprendere noi stessi a fondo bisogna comprendere questo qualcosa di più grande. Per capire la nostra vita e i suoi perché, bisogna capire la vita e il suo senso, e qui solo il nostro spirito ci può aiutare. Abbiamo tutti una componente spirituale, perché siamo parte dell’”essenza”, come la chiama Battiato, siamo parte di un mondo superiore che non è manifesto ma è reale, è spirituale. E se vogliamo crescere, progredire nel cammino della conoscenza e della verità delle cose, dobbiamo occuparcene, dobbiamo prendercene cura. È La cura di noi e del nostro spirito.
Grazie, maestro, per questo capolavoro.
Il sogno di Maria / La buona novella
Fabrizio De André, 1970
Volammo davvero sopra le case
Oltre i cancelli, gli orti e le strade
Poi scivolammo tra valli fiorite
Dove all'ulivo si abbraccia la vite
Scendemmo là, dove il giorno si perde
A cercarsi da solo nascosto tra il verde
Quando si parla di Fabrizio De André bisognerebbe citare l’opera omnia tanto è stata alta la qualità della sua produzione. Qui voglio ricordare una canzone particolarmente pregnante in un album altrettanto pregnante, Il sogno di Maria da La buona novella, dove Faber racconta i Vangeli in maniera molto umanizzata, priva del sacro e del divino che li caratterizza. L’album è un capolavoro assoluto della discografia italiana, ma è stato considerato da molti atipico nella produzione di De André. Eppure, ad ascoltarlo bene, è profondamente deandreiano, e fu lo stesso autore a spiegarne le origini. Nel 1998, in occasione del concerto al Teatro Brancaccio di Roma, disse sul palco:
"Quando scrissi La buona novella era il 1969. Si era quindi in piena lotta studentesca e le persone meno attente – che sono poi sempre la maggioranza di noi – compagni, amici, coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: "Ma come? Noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia, che peraltro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo." La buona novella voleva essere un'allegoria – era una allegoria – che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del '68 e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell'autorità, in nome di un egalitarismo e di una fratellanza universali. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi". (Link)
I protagonisti delle canzoni dell’album sono Maria, il costruttore di croci, i ladroni e altri personaggi prima e dopo la nascita e la morte di Gesù, che invece è praticamente assente, comparendo indirettamente solo in alcuni brani. De André ha voluto lasciare da parte il momento della predicazione e della passione del Cristo per dedicarsi alle figure minori delle Sacre scritture che, con l’eccezione di Maria, sono ausiliari alla vicenda cristica. Questi comprimari diventano qui dei protagonisti, con la loro umanità, le loro paure, i loro punti di vista. Pensiamo, ad esempio, alla splendida Tre madri, dove le madri di Dimaco e Tito, crocefissi con Gesù, provano invidia per Maria e le ricordano che suo figlio risorgerà dalla morte, mentre loro i loro figli non li rivedranno più. E Maria, rivendicando il suo dolore, ribatte che non le importa sapere che suo figlio risorgerà, se non fosse stato il figlio di Dio lo avrebbe ancora con sé.
Un’intera canzone è dedicata al falegname che costruisce croci (Maria nella bottega d'un falegname), dove questi dialoga con Maria e la gente in un serrato parallelo tra la guerra e il momento della crocifissione. Il falegname rivela a Maria che è per il figlio suo la croce che sta costruendo, con la chiosa finale della gente a ricordare che quella croce sarà conosciuta ovunque in Giordania, dalle strade alle montagne.
Ne Il testamento di Tito, il brano più famoso dell’album, è il ladrone Tito a parlare. Tito, morente sulla croce di fianco a Gesù, passa in rassegna i 10 comandamenti smontandone la fredda sacralità e analizzandoli in un’ottica umana. Ciò che emerge è una grande verità: l’essere umano è debole e imperfetto, spesso non all’altezza dei precetti religiosi, così alti e aulici, ma allo stesso tempo questi precetti sono freddi e impersonali, mancano di vita vera e contengono in sé delle contraddizioni molto forti. Perché il figlio dovrebbe onorare il padre che gli ha fatto violenza? Perché è ingiusto amare una donna sposata ad un altro uomo, quando è il cuore che sceglie? Dio non è mai citato, ma questo brano sembra quasi una supplica al divino che non abbandoni l’umanità, che abbia compassione, o meglio comprensione, di essa, perché gli esseri umani possono non allinearsi ai precetti religiosi ma avere comunque sentimenti nobili, d’amore e di pietà per il dolore del prossimo, come mostra il ladrone Tito negli struggenti versi finali: “Io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore, nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”.
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Marc Chagall, dipinto a olio dalla serie Il cantico dei cantici, 1958
La figura di Maria è centrale nell’album e a lei sono dedicati più brani. Tra questi spicca Il sogno di Maria, che racconta l’Annunciazione della sua maternità, la “buona novella”, da parte dell’Arcangelo Gabriele, ma lo fa in maniera del tutto inusuale perché tratta la vicenda con il meccanismo del sogno.
L'angelo scese come ogni sera ad insegnarmi una nuova preghiera,
poi d'improvviso mi sciolse le mani e le mie braccia divennero ali
Maria si trova nel Tempio raccolta in preghiera. L’ angelo arriva, come ogni sera, invocato dalle preghiere di lei, ma quella volta “le scioglie le mani”, la libera dai suoi doveri, e insieme volano sopra le case, gli orti e i cancelli della città, fino a dove si perde il giorno. In uno scenario poetico come pochi altri, l’angelo la porta per la prima volta a “conoscere l’estate”, a conoscere la vita. E per lei, adolescente stretta nelle rigide strutture morali e sociali dell’epoca, è come un’estasi.
Se c’è un artista che saprebbe ben rappresentare questo momento è Marc Chagall, che ha fatto del sogno la dimensione della sua pittura. Russo d’origine, si trasferì in giovane età a Parigi, dove conobbe Picasso e le avanguardie e iniziò un periodo di sperimentazione cubista. Ma dopo i pogrom e l’esperienza del nazismo, cominciò a conferire alla realtà una dimensione onirica, come a voler sfuggire all’orrore che da ebreo aveva vissuto in prima persona, e prese a introdurre nelle sue opere elementi come i fiori, le stelle, la luna, a fare volare le sue figure nel cielo e a rappresentare l’amore di coppia nella maniera a più delicata e poetica.

Marc Chagall, Due teste alla finestra, 1955/56
Le ombre lunghe dei sacerdoti costrinsero il sogno in un cerchio di voci
con le ali di prima pensai di scappare ma il braccio era nudo e non seppe volare
poi vidi l'angelo mutarsi in cometa e i volti severi divennero pietra,
le loro braccia profili di rami, nei gesti immobili d'un altra vita,
foglie le mani, spine le dita
All’improvviso Maria si sveglia dal sogno e il suo corpo, prima leggero nel cielo, ora è greve. È un ritorno alla realtà nudo e crudo, dove la leggiadria che caratterizzava il volo è sostituita dal mormorio delle voci dei sacerdoti, che, indignati e severi, giudicano quello che ha fatto. Ma l’angelo, simbolo della volontà divina, interviene perentorio a zittirli, a spegnere quelle voci (“e i volti severi divennero pietra, le loro braccia profili di rami”). La volontà di Dio è chiara e ineluttabile: nessuno può toccare Maria, che porterà in grembo il figlio di Dio. L’angelo si trasforma in cometa, e qui c’è un chiaro riferimento alla Natività, alla stella di Betlemme che appare nel cielo durante la nascita di Gesù e guida i re Magi.
Nessuno può pensare di muovere le carte in maniera contraria all’ordine delle cose, all’ordine divino. Chi deve nascere nascerà. Chi deve arrivare a destinazione arriverà. E chi prova a fermare quel progetto verrà a sua volta fermato. Tutto il cosmo è correlato a quest’ordine superiore e produce eventi e fenomeni, come la stella cometa, che sono un segno della manifestazione divina.
Lo chiameranno figlio di Dio –
parole confuse nella mia mente, svanite in un sogno, ma impresse nel ventre.
La potenza di questi versi è la potenza generatrice di Dio. Maria è confusa, non sa bene cosa è successo. Tutti parlano di lei e della sua notte al Tempio (“voci di strada, rumori di gente, mi rubarono al sogno per ridarmi al presente”). Lei si chiede se è stato un sogno o se è stata realtà. Qualsiasi cosa sia stato, ora porta in grembo il frutto di quell’esperienza e deve dirlo a Giuseppe, a cui è promessa sposa. È preoccupata, piange, teme una reazione dura da parte di lui. Ma nel progetto di Dio ogni cosa è al suo posto e tutto andrà bene. Così alla fine Giuseppe, anziché rimproverarla o ripudiarla, le accarezza teneramente il volto, segno dell’accettazione di quella strada (“e tu, piano, posasti le dita all'orlo della sua fronte, i vecchi quando accarezzano hanno il timore di far troppo forte”).
Con Il sogno di Maria siamo ai vertici del cantautorato italiano, personalmente non ho mai sentito nulla di simile. Sono versi di una bellezza assoluta, quasi mistica. Di certo questo non era l’intento di De André, che sulla religione aveva una posizione molto chiara, ma forse senza volerlo è riuscito a rendere la vicenda dell’Annunciazione di Maria più spirituale degli stessi Vangeli, conferendole una componente di emotività e di poeticità che i versi biblici non hanno.
Le numerose analisi del testo che si sono susseguite hanno spesso dibattuto se l’esperienza di Maria con l’angelo sia effettivamente un sogno o un’allegoria per un incontro fugace che la giovane ha avuto una notte al Tempio. Io penso che non abbia importanza se Maria ha conosciuto o meno l'amore fisico e la sua gravidanza, più che allo Spirito Santo, è dovuta all’incontro con un uomo che non è Giuseppe. Neanche De André lo rivela, anche se alcuni versi suggerirebbero che l’angelo sia un uomo con cui lei ha passato la notte (“ed alla fine d'ogni preghiera contava una vertebra della mia schiena”). Questa curiosità mi sembra il prodotto dell’eccessiva enfasi che la società contemporanea attribuisce alla sessualità. Dalla pruderie delle epoche passate siamo passati ad una società ipersessualizzata, dove tutto ruota attorno al sesso in una maniera ostentata se non proprio sfacciata, e dove sempre più spesso le persone si mostrano incapaci di elevarsi a comprendere un livello superiore delle cose, più poetico e meno materiale.
Il senso del brano è un altro, è rendere a questo episodio biblico la sua umanità piena. Faber non sottrae Maria alla sacralità che il cristianesimo le ha attribuito per la sua verginità, ma la illumina, con i suoi versi meravigliosi, di una luce nuova, femminile, terrena, e lo fa con estrema delicatezza e pudore, lasciando la vicenda indefinita, a metà tra sogno e realtà, e trattandola con una poeticità toccante in ogni parola. Il risultato è una canzone di una bellezza sublime e superiore, assolutamente impensabile per i musicisti di oggi.
Io ero Sandokan
Armando Trovajoli, 1974
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Questa canzone sembra un vecchio canto partigiano, in realtà fu scritta 30 anni dopo la fine della guerra per il film C’eravamo tanto amati di Ettore Scola.
Gianni (Vittorio Gassman), Antonio (Nino Manfredi) e Nicola (Stefano Satta Flores) sono nella Resistenza durante la seconda guerra mondiale, ma dopo la Liberazione le loro strade si dividono e ciascuno cerca la propria strada nell’Italia postbellica, con le sue trasformazioni e i suoi aggiustamenti economici, sociali e culturali. Gianni è un modesto praticante in uno studio legale, Antonio fa il portantino in ospedale e Nicola si dedica all’insegnamento.
Antonio, durante un turno in ospedale, conosce Luciana (Stefania Sandrelli) e se ne innamora, ma lei gli preferisce Gianni. I due cominciano a frequentarsi, ma quando decidono di confessare tutto ad Antonio, questi si arrabbia e li allontana. L’incontro con la figlia di un ricco costruttore edile spinge Gianni a troncare ogni rapporto con Luciana per inseguire ricchezza e successo. Lei, piena di dolore, tenta il suicidio, ma viene salvata da Antonio, ancora innamorato di lei. Gianni, avvertito da Nicola, decide di recarsi da Luciana, ma quando la vede uscire dalla clinica dove era ricoverata decide di restare in disparte. I tre si perdono di vista e ognuno va per la sua strada tra famiglia, difficoltà lavorative e opportunità di carriera.
Molti anni dopo, all’inizio degli anni ’70, Antonio e Gianni si incontrano per caso. I litigi e i dissapori sembrano appartenere al passato e un abbraccio sincero conferma che la loro amicizia in fondo non è mai venuta meno. I due decidono di rivedersi con Nicola e organizzano una cena per la sera dopo alla vecchia osteria dove erano soliti incontrarsi da giovani. La serata passa tra risate, ricordi e racconti di vita quotidiana. Antonio è un militante della sinistra extraparlamentare, sempre in difficoltà economica, è sposato e ha due figli. Nicola è un intellettuale e si occupa di critica cinematografica. Gianni, da poco rimasto vedovo, non rivela di essere diventato ricchissimo e finge di essere un parcheggiatore. A fine serata Antonio porta i due amici a conoscere sua moglie. È Luciana, il suo vecchio amore, che dopo mille disavventure è riuscito a sposare. E’ seduta nella piazzetta davanti ad una scuola, in fila assieme ad altri genitori per iscrivere il figlio minore alle elementari.
Gianni è sorpreso, in un attimo è sopraffatto dalla memoria e dai sensi di colpa. In fondo l’ha sempre amata, ma il suo arrivismo lo ha portato a fare altre scelte. Le rivela che l’ha pensata tanto negli anni, perché un grande amore non si dimentica. Quella che trova, però, è una donna più distaccata, lontana da lui e dai suoi ricordi, che ha completamente chiuso col passato perché immersa nella vita di famiglia e nei problemi quotidiani. Dice a Gianni che ora vuole bene ad Antonio e lui, convinto che la sorpresa dell’incontro con Luciana sia una rivalsa dell’amico, se ne va senza dire niente.
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C’eravamo tanto amati è un film bellissimo, che racconta un pezzo di storia italiana tramite le memorie e i percorsi di vita dei protagonisti, legati in maniera indissolubile dall’esperienza così forte della guerra. La natura del rapporto tra Gianni, Antonio e Nicola è ben resa dalla canzone Io ero Sandokan, che ne costituisce anche il tema musicale. La canzone è usata in due momenti cruciali del film, all’inizio, quando i tre amici sono impegnati nell’attacco ai carri armati tedeschi e durante le scene di repertorio della Liberazione con il paese in fermento, e poi alla fine, in occasione della veglia davanti alla scuola, quando, dopo tanti anni, si rivedono con Luciana e scoprono che è sposata ad Antonio. Sono due scene emblematiche, che stanno a significare l’importanza del legame che si era formato tra i tre durante la Resistenza e che nonostante i diverbi, le divergenze e i percorsi di vita differenti è rimasto solido. Ed è ciò che spiegava Antonio a Luciana quando gli presenta Gianni:
"Vedi Luciana, quando si è rischiata la vita con qualcuno resti sempre attaccato a quelle persone, come se quel momento non fosse mai passato e quelle persone ti dovessero ancora salvare, perché il pericolo è rimasto sempre immantinente".
Eppure, la vita può arrivare a dividere anche i legami più forti. Il percorso di Gianni, più complesso rispetto a quello degli altri due, lo ha anche allontanato maggiormente. Dopo la serata insieme, Antonio e Nicola scoprono chi è davvero e, sbalorditi dal suo successo lavorativo e dalla ricchezza che lo circonda, anziché affrontarlo se ne vanno. Il film si chiude così e non sappiamo se quella è anche la fine della loro amicizia. Forse no. Forse si tratta, come accaduto in passato, di metabolizzare, di lasciare che le cose facciano il loro corso. Si tratta di lasciare aperta la possibilità di vedersi ancora in futuro, perché, come dice una strofa della canzone, "se il destino ci allontana, il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà".
Mediterranea
Giuni Russo, 1984
Portami a ballare oppure altrove
Ma portami via da qui
Per le strade che sai
Verso la notte
Non mi abbandonare al mio silenzio
Questa canzone ha qualcosa di enigmatico. Pur nella sua semplicità, fatta di gesti semplici e di dinamiche quotidiane (“Mentre mi pettino… Il pomeriggio al mare… Portami a ballare”…) il testo evoca qualcosa di profondo. È chiara l’emozione di chi canta per una passione appena sbocciata, ma non sappiamo se si tratta di un incontro che è realmente avvenuto o piuttosto un desiderio, un sogno estivo ad occhi aperti.
“Buongiorno come stai. Vieni, la spiaggia è vuota, aspetteremo qua il tramontar del sole”. La delicatezza di questi versi è la delicatezza di chi si sta relazionando con qualcuno per la prima volta, qualcuno che non si conosce bene e con cui c’è ancora una lieve distanza. Ma poi c’è l’esortazione a superare quella distanza e a concretizzare il desiderio di un legame che va oltre la fugace passione estiva. “Portami via da qui, portami a ballare o altrove”. Fammi vivere appieno l’intensità del sentimento che è nato, portami via dalla quotidianità che vivo.
“Non mi abbandonare al mio silenzio, e portami via da qui per le strade che sai”. L’esortazione finale di chi parla è perentoria: non mi abbandonare. Non mi lasciare qui, alla mia vita, alla mia solitudine, perché tu hai gli strumenti per accogliermi. E le strade che sai sono quelle che ci conciliano e ci completano, che possono trasformare quest’avventura estiva in un legame forte e duraturo.
Mediterranea è un brano che sa di blu, un blu profondo, intenso. Immenso. Ad ascoltarlo sembra di sentire il rumore del mare e delle onde, la sabbia calda sotto i piedi e le passeggiate della gente sul litorale. Se dovessi usare un colore a olio per descriverlo direi che è un blu oltremare francese, un pigmento ricavato dal lapislazzulo con bellissime nuance tendenti al viola.
C’è un’ombra di malinconia in questa canzone, di inquietudine quasi. Credo che questo effetto lo produca la voce di Giuni Russo, assolutamente unica e bellissima, che è in grado di trasformare la semplicità del testo in qualcosa di più profondo e misterioso.
Giuni fu un talento canoro straordinario, eppure non fu mai molto valorizzata dalle case discografiche italiane, che negli anni ‘80 avevano virato verso una produzione commerciale e la usavano soprattutto per le hit estive. Tutti infatti la ricordano per Un’estate al mare (che peraltro porta la firma di Battiato). Decisa a seguire un proprio percorso indipendente, si staccò dalla major che la rappresentava, la CGD di Caterina Caselli, e col tempo riuscì a trovare un proprio posto nella musica autorale. Negli anni ’90 abbracciò una religiosità di tipo mistico e divenne una devolta di Santa Teresa d’Avila, frequentando il Monastero delle Carmelitane di Milano. Da quel momento e fino alla morte produsse brani ispirati dallo studio dei testi di mistici, oltre che dalla poesia. Scomparve nel 2004 dopo una lunga malattia e da allora la sua memoria è tenuta viva dalla compagna di una vita, Maria Antonietta Sisini.
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